LaTurchia attuale e' il prodotto di una serie di ribellioni, rivoluzioni e
riforme tese a costruire un moderno Stato europeo. La storia la unisce al nostro
continente, ma questo non rende certo pi facili i negoziati di oggi.
In seguito all'apertura commerciale e al
processo di modernizzazione il Governo di Pechino ora si vede lottare contro
ideali democratici provenienti dall'interno e dall'esterno del paese.
Energia
Stiamo entrando nella seconda metà
dell'era del petrolio, che sarà caratterizzata dal declino degli
approvvigionamenti. Potrebbe essere la fine dell'economia come la conosciamo
oggi ma fare previsioni è impossibile, perchè sarà la prima volta che
una risorsa cruciale esaurirà .
L'indagine annuale del World Economic Forum (Wef), giunta alla 26esima edizione, è il risultato di una combina di dati e indicatori macroeconomici concreti a indagini valutative che coinvolgono ogni anno circa 11.000 manager e imprenditori di tutto il mondo, tramite una rete di istituti partner.
L'Italia nel 2005 resta inchiodata al 47esimo posto su 117 in questa graduatoria mondiale della competitività (Global Competitiveness Report 2005-2006), registrando lo stesso modesto piazzamento al quale era crollata un anno fa, poco prima del Botswana e ben lontano da tutte le economie più avanzate. (qui la classifica)
Dopo 12 mesi di analisi, di scelte strategiche, di discussioni sulla competitività, la performance del nostro paese si ritinge di ridicolo, non riuscendo a guadagnare nemmeno un gradino. Per motivare la pagella italiana, il Wef dedica un’intera parte del rapporto illustrando i fattori che hanno inciso nella valutazione. Secondo il Wef hanno pesato: - le vicende delle tentate acquisizioni di alcune banche italiane da parte di banche estere. - Il deterioramento dei conti pubblici e una crescita economica sottotono. - Il debito pubblico. - L’impatto dei dati sul crimine organizzato. - Le condizioni di assunzione e licenziamento. Considerando questi elementi siamo umilmente al di sotto degli Emigrati Arabi, il Qatar, la Malaysia, il Bahrein, la Tunisia, la Giordania e la Grecia.
Sul fronte tecnologico, l’Italia risulta 44essima, guadagnando un ulteriore insuccesso. L’impiego del personal computer nelle aziende, difatti, è inferiore a quello nella Corea, Repubblica Slovacca e Grecia. Anche nell’utilizzo di internet l’Italia viene scavalcata dal Singapore, Taiwan e Corea.
Particolarmente preoccupanti, rivela il documento, sono la mancanza di indipendenza del sistema giudiziario e la percezione che il governo favorisca imprese e individui.
“E' difficile essere competitivi in un sistema che combina un'inefficienza cronica ad una pesante pressione fiscale, in cui nei rapporti con l'impresa la pubblica amministrazione opera favoritismi verso imprese e individui determinati, in cui i lavoratori italiani sono tra i più pagati e i più protetti al mondo". Riconosce Irene Mia, economista del Wef.
In cima alla graduatoria mondiale non è cambiato nulla: prima la Finlandia, seguita da Usa, Svezia e via via una serie di Paesi del nord Europa o dell'Asia, che - all'opposto dell'Italia - vantano pubbliche amministrazioni efficienti e una fortissima propensione all'innovazione. Il bel Paese, avverte lo studio, ha anche "urgente bisogno di un aggiustamento fiscale", con l'invecchiamento che minaccia la sostenibilità del suo sistema pensionistico.
“difficult to suppress growing market exuberance when the economic environment is perceived as more stable”.
Greenspan torna a parlare di rischi sistematici. Lo ha fatto martedì in occasione del meeting organizzato dalla National Association for Business Economics. Con il consueto discorso enigmatico ma con un tono insolito quasi a voler puntare l’indice, il presidente della Fed, avverte gli operatori e gli speculatori dei mercati americani e indirettamente quelli mondiali.
“History cautions that extended periods of low concern about credit risk have invariably been followed by reversal, with an attendant fall in the prices of risky assets……. ……Such developments apparently reflect not only market dynamics but also the all-too-evident alternating and infectious bouts of human euphoria and distress and the instability they engender,”
Greenspan, come scrive il Chicago Sun-Times, ammonisce quei soggetti che assumono posizioni considerate azzardate, non in linea con gli equilibri economici riferendosi specificatamente all’ambiente azionario, obbligazionari e al mercato immobiliare.
I rendimenti obbligazionari come l’andamento del comparto azionario dopo la crisi di inizio secolo non hanno mai subito rallentamenti perchè avvantaggiati dai bassi tassi d’interesse e dai costati prezzi delle materie prime. Ma ora con l’indebolimento del dollaro e con il caro greggio le cose sono rapidamente cambiate tanto che non ci sarebbero più i presupposti per restare tranquilli in borsa. Questo clima nei mercati ricorda tanto lo scenario vissuto nel 1987. La crisi scoppio in seguito di una impennata dell’indice CRB Futures Index (futures materie prime) (guarda il primo grafico) che si ripercosse successivamente sul un allora vivace mercato azionario e obbligazionario cogliendo gli operatori di sorpresa.
1987
CRB Index Futures (tratteggio grande)
Bonds end Equity
Tenendo presente che l'andamento azionario e obbligazionario è inversamente correlato con quello dell'indice CRB, l'analisi intermarket ci mostra incoerenza sia nei grafici precedenti (incostanza successivamente colmata con il crollo delle quotazioni) sia nei grafici odierni. Se nei prossimi mesi entrambi i mercati non fletteranno lentamente adattandosi così allo scenario in atto nel mercato delle materie prime si potrebbe assistere ad un tracollo, simile a quello del 1987 riportato nel secondo grafico.
Oggi
CRB Index Futures
Bonds end Equity
Nel mercato immobiliare il pericolo è analogo, e qui Greenspan, gia da molto tempo suona la campana. Il discorso di martedì è stato principalmente indirizzato a chi vede ancora nel settore grandi potenzialità di guadagno. Gli speculatori che continuano ad investire sul mattone con l’ausilio di grossi indebitamenti e ipoteche sono stati ravvisati. Allo stesso tempo il Governatore manda un messaggio anche ai proprietari di immobili: ''The vast majority of homeowners have a sizable equity cushion with which to absorb a potential decline in house prices,''
Greespan conclude il suo discorso chiedendo la complicità dei cittadini americani: “Nell’ultima riunione della Fed ho richiesto io stesso al consiglio di continuare una politica accomodante dei tassi d’interesse per garantire l’espansione e combattere l’inflazione. Sono convinto che con il vostro aiuto e un po' più di razionalità si possano evitare shock e rischi di recessione.”
Il comportamento dei soggetti è un elemento da non sottovalutare. L’irrazionalità degli operatori in materia economica è molto pericolosa. Anche in Europa si soffre per gli stessi rischi americani.
Attraverso la recente pubblicazione del “World Economic Outlook” il Fmi lancia un monito: “i governi devono agire ora per correggere gli squilibri globali se vogliono ridurre i rischi che pesano sulla crescita a medio termine. L’economia globale è stata capace di assorbire gli shock degli ultimi anni, ma nel lungo periodo le fondamenta dell’espansione appaiono molto incerte. Preoccupano gli alti prezzi del petrolio e le tentazioni protezionistiche nell’economie sviluppate”.
I timori del Fondo Monetario Internazionale sono in linea con il rapporto annuale “Economic Freedom of the World” che trae queste conclusioni:
"The key ingredients of economic freedom are personal choice, voluntary exchange, freedom to compete, and the protection of person and property. Economic freedom liberates individuals and families from government dependence and gives them control over their own future. Empirical research shows that economic freedom increases prosperity and also leads to democracy and other freedoms."
Il documento, che si basa su 2003 dati, stila una classifica, “Summary Economic Freedom Ratings”, che conta sull’analisi di 127 Paesi. L’Italia si è classificata 19° scavalcata da 54 paesi , conquistandosi l’ultimo posto tra gli Stati Europei. Lascio al lettore eventuali commenti.
La Banca Centrale Americana ha proseguito senza esitazioni nella propria politica di rialzo graduale dei tassi che arrivano così al 3,75% dal precedente 3,50%. La manovra e la conferma del programma di politica economica della Fed arriva come una doccia fredda nella regione del Golfo del Messico. Sarà dura ricostruire case e palazzi con un saggio d’interesse ascendente ma con questo scenario la Fed non poteva fare di meglio. Tenere d’occhio l’inflazione in questo momento è una priorità di interesse per tutti gli statunitensi, compresi quelli più disagiati. Un costante ascesa dei prezzi, difatti, può portare maggior disagio nel sottore edilizio e negli investimenti industriali che un aumento dei tassi d'interesse.
I dati raccolti sull'indice mensile dell'inflazione core danno credito alle preoccupazione di Greenspan. Nonostante l’eccessiva stabilità degli ultimi mesi, il grafico e le previsioni sul prezzo del greggio di breve periodo fanno pensare ad una modesta accelerazione dell’indice in questione, che chiuderà l’anno al 2,1% per poi salire nell'arco del 2006.
Questa implicazione che trova fondamento nel quadro geopolitico ed economico mondiale può essere condizionata da tre differenti fattori:
1. Il continuo aumento del costo del lavoro per unità di prodotto (CLUP) potrebbe nei prossimi 3 mesi diminuire i margini di profitto delle imprese ed esercitare un maggior incentivo a trasmettere ai consumatori l’aumento dei costi.
2. L’impulso della componente energetica rientrerà solo parzialmente tra ottobre e novembre e nella migliore ipotesi si può solo assumerlo costate per il 2006.
3. L’effetto del deprezzamento del dollaro è stato sino ora limitato ma vi sono segni di una maggiore sensibilità dei produttori esteri alle variazioni del cambio, fenomeno che potrebbe accrescersi se le divise asiatiche si rafforzassero. In prospettiva il deprezzamento della valuta continuerà ad esercitare un effetto propulsivo sulla dinamica dei prezzi.
In questi ultimi dieci giorni l’Europa Brutte notizie per l’economia europea provenienti rispettivamente da Germania e Italia. Per la prima l’indice della fiducia di settembre, lo Zew, è crollato da 50 (agosto) a 38,6 punti. Sul dato ha certamente influito il riscontro arrivato lunedì, dopo le elezioni che hanno disegnato una situazione di difficile governabilità. Il dato non è da sottovalutare, potrebbe essere in grado di screditare le recenti speranze di ripresa. Per il momento questi numeri hanno convinto l’istituto di ricerche economiche Hwwa ( Hamburg Institute of International Economics) ha rivedere al ribasso stime di crescita tedesca. Per il 2005 si passa allo 0,6 % dallo 0,9%, mentre dal 1,3 al 1%. La revisione interessa indirettamente anche il nostro Paese visto che la Germania rappresenta il miglior cliente dei prodotti italiani.
Anche sul fronte economico italiano, dove la situazione è già fiacca, si prevedono tagli alla crescita. Il Fmi registra un dato in recessione per questo trimestre e indica una crescita nulla per tutto il 2005. L’atmosfera creata dalla finanziaria e le dimissioni del numero di via xx settembre non hanno ancora avuto un effetto immediato sul comportamento dei mercati, ma di certo gli operatori attendono risposte, sia dalle autorità economiche italiane, sia dal Governo di Berlusconi. Purtroppo nel nostro paese le istituzioni sono sempre molto lente nel reagire ma non solo, c'è sempre qualcuno che non sa mai perché vada fatto. Venerdì, nel periodo intercorso tra le dimissioni di Domenico Siniscalco e la nomina di Giulio Tremonti, il Tesoro ha annunciato l’emissione di nuovi BoT, CTz, e BTp per un valore di 13 miliardi di euro e ha presentando un programma di emissione per tutto l’anno 2005. Come se nulla fosse il differenziale (spread) tra BTp e Bund tedeschi decennali è rimasto invariato a 19 centesimi di punto percentuale, proprio mentre le tre agenzie Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch minacciano un declassamento istantaneo dei rating dell’Italia. Gli investitori internazionali hanno sempre visto i titoli di credito italiani un buon affare, sia per il loro basso rischio, soprattutto per il loro rendimento. Eppure anche per loro, che detengono ormai il 50% del debito pubblico italiano, la quiete sull’Italia è solo apparente. Si sa nei mercati ad ogni livello di rischio corrisponde un rendimento e nel caso si verificasse una diminuzione del rating acquistare titoli di credito italiani potrebbe sembrare un azzardo.
Una tempesta di vendite sui titoli di Stato potrebbe dunque scatenarsi da un momento all’altro, allargando l’inamovibile spread. Basta una goccia, un trigger event, per far traboccare il vaso anche se l’Italia è membro dell’Unione monetaria, anche se l’euro ha preso il posto della lira. Gli occhi del mondo ora sono puntati sulla finanziaria, sulla credibilità, e sul quadro politico.
In un anno e due mesi intensi, Domenico Siniscalco, ha cercato in tutti modi di superare gli ostacoli derivanti dalla separazione delle competenze tecniche dalle abilità politiche. Il caso del ex-ministro pur non essendo stato il primo tecnico puro dietro la scrivania di Quintino Sella, solleva un problema: i tecnici alla guida del Tesoro sono le persone giuste al posto sbagliato?
Nel suo mandato ha ridotto i rapporti con la Banca d’Italia e ha portato collegialità nel suo Ministero. L’inizio del suo cammino è stato in salita ma, con il sostegno iniziale di Berlusconi e l’appoggio della Banca d’Italia, il suo futuro non si prospettava da eremita. Soffocò con grande astuzia le resistenze dei ministri e del Parlamento in occasione della Finanziaria dell’autunno 2004, presentando e importando il cosiddetto metodo Gordon Brown per arginare entro il 2% la lievitazione della spesa. L’ammirazione verso Siniscalco sembra venire meno alla luce del nuovo anno. I rapporti con la maggioranza si deteriorano di fronte al forcing di Berlusconi per il taglio delle tasse, al peggioramento dei conti pubblici e all’aggravarsi della congiuntura economica che ha precipitato il paese prima nella recessione e poi nella stagnazione. Poi fu il turno della disfatta elettorale del Polo alle elezioni regionali e l’inizio di discussioni sull’operato di Fazio dopo le scorribande finanziarie dei furbetti del quartierino e le controverse scalate bancarie. Dopo aver indicato la via per la riforma sul risparmio e aver preso le difese del Governatore, il ministro vede precipitare la situazione interna a Banca d’Italia ed è costretto ad ascoltare le sirene della comunità finanziaria internazionale. Risultò il primo a chiedere le dimissioni di Fazio ma ne Berlusconi ne la maggioranza lo sostennero.
“Non mi piace – conferma con amarezza – un Paese nel quale una grande banca straniera per venire a investire i suoi soldi deve chiedere il permesso di Luigi Grillo – il più fazista dei fazisti. Quella posizione “O via io o via lui” ora appare chiara. Siniscalco vedeva quelle dimissioni come una liberazione. Le polemiche sulla Finanziaria, originate da una maggioranza univoca, erano la conferma di un isolamento che non aveva ragione di esistere. Il miglior tributo a Siniscalco, mal trattato dagli esponenti della coalizione di Governo che ora si appresteranno ad assaltare la diligenza della Finanziaria. La scusa è sempre la stessa: i tecnici non sono in grado di comprendere le variegate esigenze della società, per questo ci vuole la sensibilità di un politico. Traduzione: in tempi di elezioni le priorità economiche possono attendere. L’ex ministro torna a Torino ad insegnare all'università. Meglio perdere la poltrona che la faccia.
L’Istat ha confermato qualche giorno fa la buona tendenza del tasso di disoccupazione, sceso al 7,5 per cento. Un livello notevole visto che nel 1998 il tasso di disoccupazione si attestava al 12 per cento. Si è verificato un vero e proprio miracolo, anche in considerazione del continuo abbandono di posti da parte delle donne meridionali. Cresce anche l’occupazione dipendente a tempo indeterminato. È chiaro che a livello macroeconomico, non stiamo affatto assistendo a una "precarizzazione" del mercato del lavoro (un fenomeno temuto dagli italiani), ma la mancanza di crescita pone dubbi sulla struttura e sulla sostenibilità del sistema.
Il prof. Piero Garibaldiredattore del sito lavoce.infoe docente dell’Università Bocconi cerca di fare luce sulla situazione, utilizzando e commentando il rapporto dell’Istat.
La nuova indagine delle forze di lavoro, riferita al secondo trimestre del 2005, conferma le tendenze e i paradossi del mercato del lavoro italiano. Vi sono due fenomeni clamorosi. La crescita dell’occupazione sostenuta, e superiore alla crescita tendenziale del Pil, e un aumento del divario territoriale, in particolare tra il Nord e il Sud del paese. Il ruolo degli immigrati contribuisce a spiegare entrambi i fenomeni. Vediamo perché.
Effetto statistico Rispetto al secondo trimestre del 2004, il mercato del lavoro ha creato 213mila occupati, con un tasso annuo pari all’1 per cento. Nello stesso periodo, il Pil è cresciuto di appena lo 0,1 per cento. La differenza è impressionante, e continua ormai da quasi cinque anni. Soffermandoci soltanto sugli ultimi trimestri, la crescita degli occupati è pari a 90mila unità, con un tasso di variazione dello 0,4 per cento, quando invece il Pil è cresciuto dello 0,7 per cento. Cifre più normali. Ma come mai tutti questi nuovi occupati con così poco nuovo prodotto? L’Istat ha ufficialmente riconosciuto nel suo comunicato che il dato dell’occupazione è "determinato soprattutto dall’incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe". In sostanza, si riconosce ufficialmente che la crescita dell’occupazione senza crescita del Pil è collegata a un effetto statistico legato ai lavoratori immigrati. Il meccanismo sembra quello che avevamo individuato nella scorsa rivelazione. Il prodotto dei lavoratori immigrati è già nelle statistiche del Pil, mentre la loro presenza non era rilevata dalle inchieste delle forze lavoro, il cui campionamento è intrinsecamente basato sulla popolazione anagrafica.
Differenze tra Nord e Sud Il secondo fenomeno riguarda la differenza territoriale. In dodici mesi, il Nord del paese ha creato 178mila posti di lavoro, mentre il Mezzogiorno soltanto 17mila. E la differenza di comportamento geografico per sesso è allarmante. Le donne occupate nel Mezzogiorno, la categoria di lavoro più sottorappresentata nel paese (con un tasso di occupazione pari a solo il 30 per cento), sono addirittura diminuite. Anche la crescita del divario territoriale è legata al ruolo degli immigrati: è ben documentato che tendono a localizzarsi esattamente dove ci sono più posti di lavoro, ossia nel Nord del paese. Gli immigrati sono infatti molto più mobili e flessibili della popolazione residente, ed è naturale che cerchino di integrarsi dove la disoccupazione è più bassa.
Garibaldi ha sicuramente colpito nel segno. L’immigrato con la sua flessibilità, sia nella mobilità territoriale sia nell'adattabilità nel mondo del lavoro, ha contribuito alla crescita dell’occupazione ma le sue conclusioni ci aiutano solo in parte a spiegare lo scarso livello di sviluppo.
L’ipotesi più appropriate vanno forse ricercate nel passato. La fase di crescita senza occupazione registata nel periodo 1992–1997 può essere l'origine e la causa di questo problema. Di fatti, la congiuntura di questi cinque anni può giustificare la presenza di due fattori: 1. la necessità di recuperare la perdita di occupazione degli anni in questione. In altri termini la necessità di ricostituire gli organici delle imprese con il ricorso a nuove qualifiche e professionalità. 2. la diffusione di nuove forme contrattuali improntate ad una maggior flessibilità (lavori atipici, contratti a termine). Il fenomeno resta, comunque, di difficile interpretazione e continuerà ad essere oggetto di studio tra i ricercatori.
La Danimarca è stato il primo paese a pubblicare i nomi delle persone e delle aziende che hanno ricevuto, in questi anni, le generose sovvenzioni agricole dell’cEu. L’elenco include anche politici danesi, quale Mariann Fischer Boel (allora ministro delle politiche agricole), il ministro dell’economia, il ministro della pubblica istruzione e molti parlamentari.
I risultati sono una vera sorpresa scrive il giornalista Kjeld Hansen: " i piccoli coltivatori non sono i veri beneficiari del programma di supporto agricolo dell’Ue." e la situazione danese sembra essere in linea alla tendenza degli altri stati.
Inoltre Hansen sottolinea:
"......although agricultural subsidies account for half the EU budget, the future development prospects of rural areas appear bleak and, despite CAP reforms implemented this year, the monstrous doling out of billions of euros is leading to the break up of rural communities rather than the reverse."
"Far too much money is spent on passively supporting an affluent minority instead of actively investing in a common future. Simultaneously this generous support crucially keeps cheaper Third World farm products out of the European market."
"…….agricultural subsidies ‘steal’ a huge amount of resources that could otherwise be invested in education and R&D in the EU."
Eppure Tony Blair ci aveva avvertiti. Chissà se la Francia pubblicherà mai una lista del genere. Sarebbe più divertente commentare l’espressione di Chirac che analizzare i dati del documento.
Le valutazioni dei danni subiti dalla Lousiana, Mississippi e Alabama sono soggette a enorme incertezza. Ogni giorno il bilancio del disastro arrecato dall’uragano Katrina si appesantisce di nuove vittime. Nel scrivere questo post il mio primo pensiero va a tutti coloro che hanno perso la vita e alle loro famiglie.
La risposta del governo federale, inizialmente tanto debole e inefficiente da generare una reazione fra l’opinione pubblica e i politici di maggioranza e di opposizione in Congresso, appare ora molto attiva in considerazione ai mezzi stanziati e alle forze impiegate. La dimensione dell’intervento pubblico mitigherà in larga misura gli effetti stimati sulla crescita, ma tengo a ripetere che le previsioni circa i tempi di recupero e la sua stessa entità sono dominati dall’incertezza. I calcoli e le stime possono solo servire per costruire ipotesi e non certezze.
Il Congressional Budeget Office (CBO) colloca l’impatto tra i -0,5% e i -1,0% nel secondo semestre americano con una perdita di occupati entro la fine dell’anno di circa 400 mila unità. Il calcolo includeva una spesa federale di 10,5 mld di dollari destinati alle operazioni di soccorso, cifra divenuta ormai obsoleta alla luce dei 51,8 mld appena stanziati dal Congresso. Il bilancio strettamente economico dei danni è basato su una stima molto approssimativa che si aggira sui 100 mld e considerando che un importo di circa 30–35 mld di dollari sono coperti da assicurazione sembrerebbe che questa amministrazione abbia finora stanziato un ammontare di poco inferiore a quella richiesta per pareggiare il conto con la natura.
Per un opera di ricostruzione di un’intera città e il risarcimento per quelle danneggiate, invece, si parla di un ammontare pari a 50 mld di dollari, che molto probabilmente sarà totalmente finanziato con il debito pubblico, vediKatrina riaccende le polemiche sul debito pubblico. 50 mld di dollari sono tanti, ma potrebbero nel medio periodo riequilibrare le perdite nel mercato del lavoro e riacquistare i decimi di Pil persi con il passaggio dell’Uragano. Di fatti, se l’incremento della spesa pubblica non verrà finanziata con un aumento delle imposte, essa determina effetti normalmente più elevati sul reddito e sull’occupazione. Questa è una delle principali ragioni per la quale Keynes si dichiarava favorevole al deficit spending.
Le preoccupazioni economiche di bilancio degli Stati Uniti, quindi, sembrerebbero rientrare. Quello che graverà maggiormente nei prossimi anni sull’economia sarà la conseguenza del caro-greggio. Katrina ha difatti causato gravi danni alle infrastrutture di petrolio e gas naturale del Golfo del Messico riducendone l’offerta nei rispettivi mercati. Ma questa grana non riguarda solo gli States.
Non è stato sufficiente lo sconcerto dei colleghi del direttivo della Bce, né il rischio di una censura alla luce del codice di condotta del Sebc o l’apprensione espressa dalla Commissione Europea. E neppure i danni di immagine testimoniati dai numerosi articoli del Financial Times e dell’Economist. Non sono bastate le evidenti fratture interne Bankitalia, né l’indignazione per il contenuto delle intercettazioni, né un arbitro che si schiera dalla parte di chi è accusato di avere violato regole fondamentali per la solidità del nostro sistema bancario. E nemmeno, infine, sono bastate l’opinioni degli economisti e politici che hanno pregato unanime per le dimissioni con il fine di salvare l’immagine dell’istituzione. Ma cosa occorre fare per convincere il monarca ad esiliare? Prima o poi il testardo Fazio si spezzerà e Banca d’Italia dovrà sottoporsi ad una drastica riforma.
La normativa vigente è stata la causa e l’alibi del comportamento dell’attuale Governatore che gode di infiniti poteri, espressamente inviolabili dallo Statuto al Consiglio superiore e al Comitato del consiglio superiore che hanno solo competenze consultive. Infatti, non è oggi prevista alcuna funzione collegiale del direttorio. La prossime norme dovranno essere incentrate sui ruoli del consiglio e del comitato a discapito e discreditando gli attuali poteri nelle mani del Governatore. Il sistema ha bisogno, quindi, di equa distribuzione del potere tra gli incarichi e non di diminuire l’indipendenza dell’istituto per favorire l’influenza del Parlamento sull’istituto, come illustra il disegno di legge presentato dal Governo.
La divisione dei poteri è l’essenza della democrazia, come ci hanno insegnato già Charles Louis de Montesquieu e Alexis de Tocqueville. Un’economia moderna ha bisogno di divisione tra forze del mercato e della politica, tra imprenditori e politici, tra banchieri e legislatori, tra organizzazioni come Confindustria e potere legislativo. Appare quindi fondamentale che ognuno mantenga un suo ruolo preciso e limitato purché tutto funzioni nel nome di una democrazia liberale e anche nell’osservanza della nostra costituzione. D’altronde Antonio Fazio sarebbe stato impotente di fronte ad un consiglio capace di sfiduciare il ruolo di Governatore.
Vous rappelez-vous? Il 29 maggio la Francia ha rifiutato con il 55% dei voti la costituzione europea. Uno dei timori che evitò la ratifica della carta costituzionale ed contribuì a diffondere malumori all’interno del popolo francese fu la figura dell’emigrato polacco, più precisamente quella dell’idraulico, accusato di rubare impieghi agli onesti lavoratori francesi. Oggi, a pochi mesi di distanza dalle polemiche si viene a sapere, attraverso il Chicago Tribune, che a Parigi scarseggiano gli idraulici. Il panico che ha portato i francesi ad opporsi a quella manodopera a buon mercato ha prodotto i suoi sconvenienti effetti, tanto che quei pochi polacchi che al tempo lavorano nella capitale francese sono tutti emigrati verso altre società pronte ad accoglierli.
Secondo un studio dell’InternationalOrganization for Migration (che vi ripropongo ), i lavoratori migranti possono portare molti benefici al paese che li ospita. Brunson McKinley, presidente dell’organizzazione fa notare come la Gran Bretagna grazie all’adozione di vere e proprie politiche di integrazione sia riuscita a tramutare questo flusso migratorio in punti di Pil. Anche Robert Rennie è dello stesso parere e attraverso il suo articolo (EU has been urged to give British welcome to Polish plumbers) analizza l'odierna realtà del lavoratore polacco in Europa:
Euro MPs of every political persuasion yesterday called on all European Union countries to copy Britain and welcome Polish plumbers and other East European workers. Other EU member states, notably France, could learn from the example of Britain, where an influx of 100,000 Poles has only fuelled growth, the MEPs said.
French panic about cheap labour from the East is based on "scaremongering" and myths, according to the first study of the phenomenon since eight ex-Communist states joined the Union last year. The new report, presented in the European parliament yesterday, found that almost 500,000 Poles had now found work in the EU with the largest numbers reaching Germany, Britain, Italy, Holland and Ireland.
...The report was prepared by the European Citizen Action Service, a think-tank and lobby group for non-governmental organisations chaired by the former Union competition commissioner Mario Monti. It did not mince words about the yawning gap between French public opinion and reality. The report concluded that migration flows to France were "marginal".
...Unveiling the report in Strasbourg, the British Green MEP, Jean Lambert, said: "Far from being overwhelmed by Polish plumbers (or any nationality), we see workers from new member states filling jobs in shortage areas, doing work others won't do and making a valuable economic contribution." She was joined from across the political aisles by the British Conservative spokesman on employment in the parliament, Philip Bushill-Matthews.
Mentre la Francia si ritrova con un nazionalismo estremo figlio del pregiudizio e i gabinetti otturati, in Europa soltanto la Gran Bretagna, l'Irlanda e la Svezia hanno aperto le frontiere con spirito di accoglienza, permettendo al libero mercato di colmare gli squilibri e di creare opportunità. Secondo quanto riportato dall’International Organization for Migration, il nostro paese non ha problemi di ospitalità ma manca di politiche sociali in grado di favorire l’integrazione dei lavoratori migranti.
Katrina riaccende le polemiche sul debito pubblico
L’uragano Katrina potrebbe frenare la crescita economica degli Stati Uniti e indirettamente quella dei suoi partner commerciali. E' la stima diffusa dall'ufficio per il bugdet del Congresso. "Katrina - si legge in una lettera inviata ai leader politici del congresso - potrebbe penalizzare il prodotto interno lordo di mezzo punto o addirittura di un punto percentuale nella seconda metà dell'anno e ridurre l'occupazione di 400.000 unità entro la fine dell'anno".
Da Washington invece arriva la notizia, riportata dalNY Times, che Katrina può costare al governo federale circa 100 miliardi di dollari. Una cifra da definirsi abnorme se rapportata ai 21 miliardi di dollari per gli attacchi dell’9/11, difficilmente reperibile dall’amministrazione Bush nel breve periodo. Gli oneri per la ricostruzione di New Orleans arrivano in un momento delicato per il governo Repubblicano, proprio mentre Bush stava reperendo fondi per 70 milioni di dollari con il fine di estendere il programma AMT (American Medical Technologists) e alla vigilia della tanto promessa riduzione fiscale per il 2006. Molto probabilmente quel taglio sarà destinato alla Louisiana insieme ad una buona fetta del deficit pubblico che secondo il CBO raggiungerà nel prossimo anno quota 580 miliardi di dollari, Katrina inclusa. Sotto riporto l’analisi grafica del disavanzo di bilancio relazionato al tempo, in considerazione delle ultime valutazioni del CBO, della diminuzione del regime fiscale, e il problema del AMT.
Il piano cartesiano mostra una tendenza rialzista del debito pubblico che dovrà in ogni caso assorbire gli oneri di Katrina ed eventualmente le promesse fatte dai Repubblicani. Se includiamo nei piani di Bush tutti i tre programmi gli Stati Uniti si ritroveranno nel 2010 con un deficit pari a 700 miliardi di dollari, quasi il doppio di quello attuale.
«O io o il Governatore » Non è riuscito a tenersi dentro il magone, il ministro dell’Economia Domenico Siniscalco, che attraverso un mezzo politico cerca di ottenere un fine economico, le dimissioni di Antonio Fazio. Il ministro, che riceve tutta la mia ammirazione, ha fatto una scelta coraggiosa e necessaria affinché la credibilità economica della Banca centrale italiana riprenda il corso frutto di decenni di lavoro. La reazione del ministro è stata appresa dalle autorità interrelazionate alla vicenda come una mossa inaspettata e azzardata, mentre a trovato approvazione nell’editoria internazionale.
Il Financial Times con un paragone efficace rende bene l'idea di quanto sta avvenendo nei dintorni di via Nazionale: «Provate a staccare una patella dalla roccia e resisterà alacremente fino a rendere impossibile rimuoverla senza danneggiare la conchiglia. È lo stesso dilemma che sta affrontando il governo italiano nel tentativo di convincere Antonio Fazio a dimettersi senza danneggiare la Banca d'Italia»
La pressione intorno Fazio è anche il tema de le Monde che titola: Pressioni sul governatore della Banca d'Italia perché si dimetta. Il quotidiano transalpino inoltre sottolinea come sullo scandalo delle scalate bancarie alla Banca Nazionale del Lavoro e ad Antonveneta abbia aperto un'inchiesta anche la Commissione Europea e la vicenda venga monitorata dalla Banca centrale europea.
IlSole 24 Ore titola: Cinque uomini per una poltrona. Sperando che sia di buon auspicio, Piero Fornaia pensa già al dopo-Fazio disegnando Vincenzo Desario, Pierluigi Ciocca, Mario Monti, Tommaso Padoa-Schioppa, Mario Draghi come possibili candidati.
Anche se i poteri del Governatore di via nazionale sono molto forti, ci sarà pur un modo per convincerlo ad andarsene. Domenico Siniscalco questo lo ha capito e sa anche che ne verrà fuori, comunque vada, da vincitore guadagnando credibilità ed audacia, qualità che scarseggiano nel mondo politico di questi ultimi anni.
Da un’altra prospettiva sarebbe necessario riformare il sistema di norme presenti tuttora nel Testo Unico Bancario che sono la causa o più propriamente l’alibi di Fazio. Altrimenti, niente impedirà all’attuale Governatore o chi lo sostituirà di continuare nella gestione monocratica dell’istituzione. Per ridare credibilità alla Banca d'Italia non basta che l'attuale Governatore se ne vada: è necessario avere subito nuove norme che pongano fine alla gestione monocratica.
Dopo i fatti che hanno messo in luce la personalità di Fazio e il suo ruolo come direttore di un Istituto indipendente e sinonimo di garanzia come la Banca d’Italia, venerdì il Consiglio dei Ministri, più precisamente il ministro dell’Economia e il presidente del consiglio, si è limitato a discettare delle nuove regole. Che si sarebbe arrivati ad un nuovo assetto che annunciasse un mandato a termine per il Governatore e più collegialità all’interno dell’autorità era scontato, ma quello che personalmente attendevo dal Governo era una relazione sulla condotta del soggetto in questione. Infatti, sembra difficile che le timide e inefficaci decisioni del Governo siano sufficienti a indurre Fazio a fare quel passo indietro che con tanta ostinazione si è finora rifiutato di fare, nonostante tante autorevoli sollecitudini ricevute anche pubblicamente ma non diramate dalla gente che conta, come nel caso del Presidente della Repubblica non che Ex Governatore di Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi.
Tutti si continuano a nascondere dietro il dito delle regole, quando il problema fondamentale è quello della credibilità interna e internazionale dell’attuale Governatore e del paese. La conduzione personalistica e parziale della vigilanza che oggi viene da tutti addebitata a Fazio sarebbe avvenuta anche se egli fosse stato soggetto ad un termine di durata della carica e di età e indipendentemente dall’intercettazioni telefoniche. Fazio è nella condizione di un generale che ha perso la battaglia e ha distrutto il morale delle truppe (come dimostrato dalle dichiarazioni dei sindacati interni all’Istituto) ma si ostina a rimanere al suo posto perché sicuro di aver rispettato alla lettera il regolamento militare. Sembrerebbe la solita trama italiana che sinceramente mi ha bello che stufato.
In Italia, la situazione economica rimane stazionaria ad indicare una sostanziale debolezza. Tuttavia, i più recenti segnali congiunturali sembrano indicare che il punto di minimo è stato raggiunto nel primo trimestre e che, a partire dal secondo trimestre, è in atto un lento e modesto recupero. La produzione industriale, dopo un calo congiunturale dello 0,8% nei primi tre mesi dell’anno, ha registrato un consistente aumento pari a 1,7% ad aprile, cui è seguita una nuova diminuzione (-1%) a maggio.
A trainare e a diffondere ottimismo sono soprattutto il fatturato (2,3%) e gli ordini (1,5%) di aprile che hanno fatto segnare un incremento rispetto a marzo, grazie a un discreto recupero della domanda sia interna che estera. Gli stessi indicatori PMI Adaci/Reuters - pur rimanendo al di sotto della linea che separa l’espansione dalla contrazione - sono risaliti a giugno sia per l’industria manifatturiera che per i servizi.
Non si può quindi ancora dire che siamo fuori dal tunnel, in quanto altri segnali dovranno confermare le più recenti indicazioni, ma nel complesso la situazione appare meno macchiata rispetto a uno o due mesi fa.Resta però il fatto che le prospettive per la seconda metà dell’anno e per il 2006 non appaiono, comunque, brillanti. Il recupero dell’attività produttiva procede infatti molto lentamente e sull’economia italiana, come in quella mondiale, gravano i rischi derivanti dall’elevato livello del prezzo del petrolio. Non esistono inoltre sufficienti margini per un rilancio dell’economia attraverso la politica di bilancio, considerati i pesanti vincoli della finanza pubblica, certificati dall’apertura della procedura d’infrazione per deficit eccessivo avviata dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia. Secondo il programma concordato con Bruxelles, il nostro Paese ha due anni di tempo per ricondurre il deficit pubblico in rapporto al PIL, che attualmente viaggia oltre il 4%, al di sotto del 3% nel 2007.
La correzione complessiva, che il governo ha inserito nel DPEF, è pari a 23-24 miliardi, circa all’1,8% del PIL, di cui lo 0,8% (11 miliardi) nel 2006 e il resto l’anno prossimo. Se a questo si aggiungono un probabile intervento per finanziare il taglio dell’Irap e un eventuale riduzione del cuneo fiscale, si può stimare che la manovra per il 2006 sarà di almeno 16 miliardi. Dove saranno reperite queste risorse ancora non si sa. Anche considerando l’effetto espansivo sulle imprese offerto dal taglio dell’Irap e dal minor cuneo fiscale, nel complesso non ci si può aspettare dalla manovra un vero rilancio dell’economia.
La flat tax, forse uno dei temi più caldi che i governi europei occidentali dovranno affrontare nel prossimo autunno. Testato dai paesi anglosassoni e fatto proprio da quelli neo-europei il modello di stampo liberista è argomento di discussione tra gli economisti.
Quella dell’aliquota unica, la flat tax, è un’idea messa a punto da Robert Hall e da Alvin Rabushka, esponenti del centro monetarista dell’Hoover Institution for War and Peace alla Stanford University. A proporla in America è stato soprattutto Dick Armey, l’ex capogruppo repubblicano alla Camera dei Rappresentanti, che la presentò al Congresso nel 1995, come parte del programma neo-conservatore “Contract with America”, e oggi continua a sostenerla con le sue attività nell’orbita della Mont Pelerin, la grande loggia degli economisti e uomini dell’alta finanza ultraliberisti.La flat tax di Armey consiste in un’aliquota d’imposta unica del 20% su tutti i redditi delle persone e delle imprese. Secondo lui poi questa aliquota si potrebbe ridurre al 17%, nel giro di due anni. Ma con il 17%, come spiegato oltre, non è possibile ottenere un gettito bastante a coprire il bilancio. Sarebbe bello! Ma che ne facciamo del buco? La flat rate produrrebbe un gettito nettamente inferiore rispetto a quello del sistema tributario in vigore, per cui o la spesa pubblica dovrà essere ridotta con l’ascia, oppure il reddito esentasse deve scendere al di sotto dei 20 mila dollari l’anno.
L’Italia secondo Alvin Rabushka, in una intervista a Panorama, si presenta perfetta candidata insieme alla Francia Germania e Spagna. Ma lo stesso discorso fatto per gli Stati Uniti sembrerebbe ancora più complesso per le amministrazioni europee, considerando i vincoli di bilancio che impone Maastricht.
Data la notevole confusione che spesso caratterizza il dibattito sulla politica fiscale, conviene preliminarmente precisare il significato dei termini utilizzati per descrivere la politica economica. Personalmente con termine politica fiscale designo un gruppo di manovre di bilancio statale e di altri enti pubblici, definite dalla politica economica come STRUMENTI, essenzialmente con l'OBIETTIVO di garantire il benessere sociale. Il dibattito che ha come argomentazione la riforma fiscale presente in questi giorni su quotidiani, periodici e sui blog di Tocqueville tende a considerare come obiettivo il taglio delle tasse quando questa variabile non è altro che un mezzo per garantire al cittadino un efficiente servizio pubblico. Sarebbe, quindi, un enorme errore riformare il regime fiscale senza prima minimizzare la spesa pubblica.
I conti pubblici Italiani, come quelli Francesi, Tedeschi e Spagnoli, sono caratterizzati da un enorme debito pubblico affiancati da un spesa pubblica mal gestita. Infatti, se si analizza l'equazione di tipo istituzionale che considera relazioni e vincoli derivanti dalla necessità di rispettare norme e direttive (come ad esempio il divieto di finanziamento monetario della spesa pubblica previsto dagli accordi di Maastricht)
ΔG = ΔT + ΔB
dove G, T e B sono, rispettivamente, spesa pubblica, tributi, debito pubblico.
essa ci fa notare che una diminuzione dei tributi, considerando G una costante, può essere finanziata solamente da un aumento proporzionato del debito pubblico. Con questa condizione e considerando il tetto del 3% del rapporto deficit / Pil inflitto dai parametri di Maastricht, l'Italia può ridurre le imposte solamente in due casi:
- registrando di un elevato tasso di crescita. Esso diminuirebbe il divario del rapporto deficit/pil permettendo di finanziare il taglio delle tasse con la spesa pubblica. - apportando un grande taglio alla spesa pubblica. Esso permetterebbe di diminuire sia le tasse che il debito pubblico.
In conclusione, non e possibile considerare la pressione fiscale come un obiettivo di politica economica, anche se è allettante utilizzare questo pretesto per motivi propagandistici. La diminuzione del regime fiscale, quindi, può essere un mezzo sostenitore dello sviluppo economico attuabile solamente durante un ciclo di espansione economica e finanziata dal debito pubblico, o unicamente con un gran taglio della spesa pubblica.
Resta facile comprendere perchè paesi come quelli dell’Est Europa possono permettersi un’unica e bassa aliquota se si osserva il valore del loro debito pubblico. In sequenza gli Stati e il dato sul debito pubblico in % del pil: Estonia 5,8%, Lettonia 15,6%, Slovacchia 27,1%, Repubblica Ceca 21,9 e Romania 21,8.
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