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Più occupazione senza prodotto. Perchè?

     Caligs  martedì, settembre 20, 2005 Permalink 0 comments

L’Istat ha confermato qualche giorno fa la buona tendenza del tasso di disoccupazione, sceso al 7,5 per cento. Un livello notevole visto che nel 1998 il tasso di disoccupazione si attestava al 12 per cento. Si è verificato un vero e proprio miracolo, anche in considerazione del continuo abbandono di posti da parte delle donne meridionali. Cresce anche l’occupazione dipendente a tempo indeterminato. È chiaro che a livello macroeconomico, non stiamo affatto assistendo a una "precarizzazione" del mercato del lavoro (un fenomeno temuto dagli italiani), ma la mancanza di crescita pone dubbi sulla struttura e sulla sostenibilità del sistema.

Il
prof. Piero Garibaldi redattore del sito lavoce.info e docente dell’Università Bocconi cerca di fare luce sulla situazione, utilizzando e commentando il rapporto dell’Istat.

La nuova indagine delle forze di lavoro, riferita al secondo trimestre del 2005, conferma le tendenze e i paradossi del mercato del lavoro italiano. Vi sono due fenomeni clamorosi. La crescita dell’occupazione sostenuta, e superiore alla crescita tendenziale del Pil, e un aumento del divario territoriale, in particolare tra il Nord e il Sud del paese. Il ruolo degli immigrati contribuisce a spiegare entrambi i fenomeni. Vediamo perché.

Effetto statistico
Rispetto al secondo trimestre del 2004, il mercato del lavoro ha creato 213mila occupati, con un tasso annuo pari all’1 per cento. Nello stesso periodo, il Pil è cresciuto di appena lo 0,1 per cento. La differenza è impressionante, e continua ormai da quasi cinque anni. Soffermandoci soltanto sugli ultimi trimestri, la crescita degli occupati è pari a 90mila unità, con un tasso di variazione dello 0,4 per cento, quando invece il Pil è cresciuto dello 0,7 per cento. Cifre più normali. Ma come mai tutti questi nuovi occupati con così poco nuovo prodotto? L’Istat ha ufficialmente riconosciuto nel suo comunicato che il dato dell’occupazione è "determinato soprattutto dall’incremento dei cittadini stranieri registrati in anagrafe". In sostanza, si riconosce ufficialmente che la crescita dell’occupazione senza crescita del Pil è collegata a un effetto statistico legato ai lavoratori immigrati. Il meccanismo sembra quello che avevamo individuato nella scorsa rivelazione. Il prodotto dei lavoratori immigrati è già nelle statistiche del Pil, mentre la loro presenza non era rilevata dalle inchieste delle forze lavoro, il cui campionamento è intrinsecamente basato sulla popolazione anagrafica.

Differenze tra Nord e Sud
Il secondo fenomeno riguarda la differenza territoriale. In dodici mesi, il Nord del paese ha creato 178mila posti di lavoro, mentre il Mezzogiorno soltanto 17mila. E la differenza di comportamento geografico per sesso è allarmante. Le donne occupate nel Mezzogiorno, la categoria di lavoro più sottorappresentata nel paese (con un tasso di occupazione pari a solo il 30 per cento), sono addirittura diminuite. Anche la crescita del divario territoriale è legata al ruolo degli immigrati: è ben documentato che tendono a localizzarsi esattamente dove ci sono più posti di lavoro, ossia nel Nord del paese. Gli immigrati sono infatti molto più mobili e flessibili della popolazione residente, ed è naturale che cerchino di integrarsi dove la disoccupazione è più bassa.

Garibaldi ha sicuramente colpito nel segno. L’immigrato con la sua flessibilità, sia nella mobilità territoriale sia nell'adattabilità nel mondo del lavoro, ha contribuito alla crescita dell’occupazione ma le sue conclusioni ci aiutano solo in parte a spiegare lo scarso livello di sviluppo.

L’ipotesi più appropriate vanno forse ricercate nel passato. La fase di crescita senza occupazione registata nel periodo 1992–1997 può essere l'origine e la causa di questo problema. Di fatti, la congiuntura di questi cinque anni può giustificare la presenza di due fattori:
1. la necessità di recuperare la perdita di occupazione degli anni in questione. In altri termini la necessità di ricostituire gli organici delle imprese con il ricorso a nuove qualifiche e professionalità.
2. la diffusione di nuove forme contrattuali improntate ad una maggior flessibilità (lavori atipici, contratti a termine).

Il fenomeno resta, comunque, di difficile interpretazione e continuerà ad essere oggetto di studio tra i ricercatori.

 

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