LaTurchia attuale e' il prodotto di una serie di ribellioni, rivoluzioni e
riforme tese a costruire un moderno Stato europeo. La storia la unisce al nostro
continente, ma questo non rende certo pi facili i negoziati di oggi.
In seguito all'apertura commerciale e al
processo di modernizzazione il Governo di Pechino ora si vede lottare contro
ideali democratici provenienti dall'interno e dall'esterno del paese.
Energia
Stiamo entrando nella seconda metà
dell'era del petrolio, che sarà caratterizzata dal declino degli
approvvigionamenti. Potrebbe essere la fine dell'economia come la conosciamo
oggi ma fare previsioni è impossibile, perchè sarà la prima volta che
una risorsa cruciale esaurirà .
Quirinale, Confindustria, Eurostat, Eurostat, Istat, Economist , l’Ocse e infine Banca d'Italia hanno definito lo scenario italiano recessionistico. I numerosi avvertimenti non danno diritto di replica considerata la notorietà e il grado di indipendenza di chi predica. Le ferite del “malato” sono profonde e numerose, lo dimostrano le nostre litigiose forze politiche che per l’occasione sembrano disposte a dialogare seriamente. Occorre dunque ragionare, non agire avventatamente e individuare i motivi della disfatta italiana nella realtà Europea. Dalle numerose analisi è emerso, in primis, la precarietà del nostro settore industriale e della sua classe dirigente, risultata incapace di gestire e ripetere le performance della generazione precedente. Stefano Micossi riporta su La Stampa i suoi pareri sull’argomento (presenti anchequi):
"L’economia italiana langue soprattutto per due ragioni immediate. Da un lato, gli aumenti delle tariffe dei servizi a rete e dei prezzi dei servizi privati hanno eroso il potere d’acquisto delle famiglie e la capacità di competere delle imprese esposte alla concorrenza internazionale. Dall’altro lato, le ristrutturazioni delle imprese in difficoltà e gli afflussi di capitale e lavoro nei settori innovativi sono stati impediti da vincoli politici e sindacali e protezioni diffuse, soprattutto nel comparto dei servizi."
Dalle riflessioni dell’economista si può estrapolare sostanzialmente il grado di minaccia rappresento dalla concorrenza internazionale, soprattutto orientale, avvantaggiata da un Euro forte che incentiva gli europei a importare danneggiando così la produzione interna, e dai limiti della burocrazia che ha soffocato il settore opposto, quello dei servizi. Proprio questi due fattori, che possono essere rappresentati graficamente, hanno svantaggiato i due paesi europei che hanno sviluppato la propria economia sul settore industriale a discapito di quello dei servizi, vale a dire Germania e Italia.
Nella tabella si può notare il rapporto inverso tra la presunta crescita economica prevista per il 2005 e la quota, rappresentata dai dipendenti, del settore industriale presente nel paese di riferimento, all’aumentare della percentuale del settore secondario di uno stato diminuisce l’indice del Prodotto Interno Lordo. La tesi dimostra come Regno Unito, Olanda, Irlanda e via dicendo siano stati meno colpiti dagli effetti del commercio orientale, di fatti l’acquisto di merci “Made in China” da parte delle loro popolazioni non comporta un danneggiamento alla propria economia basata sul settore terziario, quello dei servizi. L’Italia penalizzata dalla situazione opposta, perde ancora un altro confronto, quello nell’utilizzo di diverse forme di contratti. L’impiego del part-time riportato in tabella, dimostra la rigidità del nostro mercato del lavoro.
Ulteriormente bisogna sottolineare la difficoltà delle Istituzioni europee, che si trovano a gestire una Unione con all’interno economie con ritmi di crescita e problematiche tra loro molto differenti. Qualunque siano le loro prossime decisioni o manovre provocheranno vantaggi destinati ad alcuni paesi a discapito di altri.
Aumenti in cambio di produttività. Ironia o verità?
Mobilità e produttività. E’ questo il risultato ottenuto del Consiglio dei ministri, che ha barattato l’aumento di 100 euro con due vincoli che dovrebbero rappresentare i fondamenti di qualsiasi amministrazione. L'accordo può essere definito un successo? Un aumento del 5% è ingiustificato se confrontato, come dovrebbe essere, all’ultima inflazione annua pari a 1,7% ma di certo la produttività è un’entità che si può misurare solo con il tempo. Di efficienza ma soprattutto di valutazione della produttività nella pubblica amministrazione si parla da tempo senza risultati concreti e in queste condizioni economiche il Governo non può certo fare concessioni.
Una forte posizione impopolare sull’accordo sarebbe stata la migliore strategia, ne avrebbero guadagnato i conti pubblici e la perdita d'immagine da parte della maggioranza sarebbe stata minima ( C’è poco da salvare ). La mobilità è forse il punto più forte e credibile dell’accordo. "Governo e sindacati - si legge nel testo - si impegnano ad avviare un confronto sui temi della mobilità e in particolare riconoscono l'opportunità di attivare un piano per il personale pubblico utile ad accompagnare i progressi innovativi" . Il termine innovazione è correlato con i tagli della spesa, di fatti il piano esecutivo prevede il taglio di 110 mila posti entro il 2007 e circa 50 mila lavoratori in mobilità. Un saluto a krillix.
Il gap macroeconomico tra area euro e Stati Uniti si sta allargando. Questo lo scenario presente ma anche prospettica che emerge dal rapporto Ocse pubblicato in settimana. Mentre Eurolandia tira il freno, sostiene l'Ocse, le prospettive di crescita sono solide per l'Asia, nuovamente al livello potenziale negli Stati Uniti e deboli e incerte per l'Europa. Nel vecchio continente gli indici congiunturali puntano a un secondo trimestre più debole delle previsioni e a una ripresa tardiva, che si manifesterà soltanto fra agosto e ottobre. L’economia continua a non generare una sufficiente domanda interna, rimanendo pericolosamente in balia di una domanda estera che non soltanto è meno dinamica rispetto al 2004, ma anche meno accessibile a causa dello sfavorevole andamento dei cambi. Per l'Ocse le continue divergenze nella domanda interna tra Europa e alcuni Paesi dell'Asia da una parte e gli Usa dall'altra, pertanto non vanno trattate con 'benign neglect'. Un calo del dollaro - avverte l'Ocse - non solo ridurrà l'export netto ma anche la domanda domestica in Giappone ed Europa. La Cina dovrebbe consentire una rivalutazione dello yuan per evitare una crescita spropositata dell'avanzo corrente. Senza appoggiare esplicitamente le critiche rivolte alla Cina dagli americani per il tasso di cambio fisso con il dollaro, secondo il capo economista dell'Ocse, Jean-Philippe Cotis, le economie asiatiche in forte espansione, come quella cinese, dovrebbero consentire un apprezzamento della propria valuta per ridurre gli squilibri globali, promuovendo la domanda interna.
Allo stato attuale, le statistiche più recenti in Francia, dopo un breve periodo il marginale vantaggio per il “si” lo schieramento dei “no” è tornato in vantaggio. Tre delle cinque indagini principali che mostravano i “si” sopra il 50% a fine aprile, segnalano a metà maggio un nuovo arretramento. Vittoria o meno del partito del "no" Chirac ha dichiarato che non si sottrarrà ad un ampio rimpasto del Governo, a partire con buona probabilità dalla sostituzione del premier Raffarin. Naturalmente sembra più una strategia dell'ultim'ora per spostare l'ago della bilancia a favore dei "si" più che una vera e propria ammissione dai propri fallimenti in materia di economia politica.
Su il Foglio appare "L'economia e la Carta", articolo che cattura le riflessioni in materia nel mondo del business:
"Oltre a quella politica del presidente Jacques Chirac – con il suo “messaggio solenne” ai francesi – c’è la drammatizzazione economica. Così, intervistato dal Financial Times, Claude Bébéar, fondatore del gigante assicurativo Axa, annuncia che il sempre più probabile “no” al Trattato costituzionale – l’ultimo sondaggio lo dà al 54 per cento – “sarà molto negativo per le imprese europee”. Bébéar prevede un salto indietro di “dieci anni” e un’Europa “più debole e incapace di fare le riforme necessarie”. “L’errore è stato di indire un referendum” su una Costituzione “troppo complessa e tecnica”, dice Bébéar, che parla di “cattiva democrazia”, perché si dà la parola a cittadini “infelici”, con “un’ansietà diffusa”……
……c’è in Italia come in Francia, ma il problema è lo scetticismo diffuso tra gli elettori europei, come dimostrano i sondaggi francesi e olandesi, e la delusione tutta italiana per la promessa mancata dell’“euro-eldorado”. Resta da capire se l’Europa ha bisogno di una Costituzione per crescere, come vorrebbe Bébéar. "
La mancata approvazione da parte della Francia, che sancirebbe la morte della Costituzione, metterebbe a nudo la crisi istituzionale dell’Unione.
"Una vittoria dei no non avrà implicazioni serie sull’economia – spiega al Foglio l’economista Benedetto Della Vedova, pure favorevole al Trattato – Il contraccolpo negativo è in atto già da tempo anche senza la Costituzione: è la corsa al protezionismo corporativo”. La maggior parte degli Stati membri ha impedito la libera circolazione dei lavoratori dell’est europeo, la strategia di Lisbona è stata annacquata, l’asse franco-tedesco è riuscito ad affossare la direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi."
L'episodio finale della saga di Lucas raggiunge un punto di non ritorno tanto che alla fine vorresti rivederlo ancora e ancora. Quello che sembrava essere un limite risulta invece la forza del film: conoscere in anticipo i destini dei personaggi (e sapere cosa accadrà nei tre episodi successivi) rende l’episodio più appetibile al ragionamento e all’attenzione nei dialoghi.
Il film racconta la storia di come una repubblica possa smantellare i suoi principi democratici, evidenziando il limite burocratico che rende poco efficiente il sistema democratico, richiamando alla memoria l’ascesa dei regimi totalitari europei nella 1° metà del ‘900. Questo aspetto è presente anche all’interno della mente umana, il regista di fatti ci ricorda i limiti della razionalità influenzata dalla passionalità, rendendoci consapevoli della sottile linea tra il bene e il “lato oscuro”.
George Lucas, attraverso la rappresentazione di un’ideologia manicheista, sta chiaramente puntando la sua spada laser verso leaders del mondo politico reale. A dimostrarlo è Anakin Skywalker, che passato al lato oscuro avverte il suo mentore, Obi-Wan Kenobi, "Se non sei con me, sei mio nemico"; ciò ci rievoca molte delle dichiarazioni del presidente George W. Bush dopo l'11 settembre, "O siete dalla nostra parte, o da quella dei terroristi". Ed è sembrata un'analoga frecciata alle ambizioni repubblicane la battuta pronunciata dalla senatrice Padme Amidala mentre il senato galattico cede il potere al malvagio Imperatore: "Qui muore la libertà, accompagnata da un tuono di applausi". Sicuramente JimMomo aggiungerà spessore a questa chiave di lettura.
"Inoltre si vocifera che per realizzare il confronto tra Yoda e l'Imperatore all'interno del parlamento della Repubblica, Lucas, si sia inspirato ai pugni, grida, insulti e inseguimenti tra i banchi dell'aula di Montecitorio." ;-)
Bolivia: proteste per il rincaro degli idrocarburi
Tutti ricorderanno la “guerra del gas” che si scatenò un anno fa, dove la popolazione stracciò la validità di una concessione del gas alle multinazionali, totalmente svantaggiosa per l’erario pubblico. Quella lotta popolare si concluse con la fuga del Presidente Sanchez de Losada e decine di morti. La Presidenza fu affidata al Vicepresidente Carlos Mesa, che ha immediatamente provveduto alla ristrutturazione del gabinetto ministeriale, promettendo di assicurare stabilità e di attuare un piano economico che avrebbe scacciato il problema energetico.
La volontà del Leader e del popolo non si fece attendere. Lo schiacciante "Si" registrato nel referendum popolare convocato il 18 di luglio 2004 riguardò il recupero del controllo da parte dello Stato degli idrocarburi, l’industrializzazione ed esportazione di gas, il potenziamento dei giacimenti petroliferi del Governo (YPFB) e l’aumento del 10% delle imposte alle Compagnie oltre che domande riguardanti temi di politica marittima in special modo l’accesso al mare (questione che si lega con la geografia boliviana e con il sentimento anti cileno nato negli anni precedenti).
Sul piano energetico la situazione è del tutto cambiata e anche se la situazione all’interno del Paese appaia molto confusa l’aumento del prezzo dei combustibili non sembrerebbe giustificato. A confermalo è l’Istituto del Commercio Estero che scrive:
" Per quanto riguarda Il delicato tema del gas, le enormi riserve di gas naturale coperte in Bolivia negli ultimi 5 anni aprono uno scenario completamente nuovo per il Paese. Attualmente la Bolivia si posiziona al secondo posto, dopo il Venezuela, nel ranking dei paesi latinoamericani, in quanto a riserve di gas naturale. Infatti con i suoi 78 giacimenti garantisce riserve pari a 70 trilioni di piedi cubi di gas.Dal punto di vista economico, l’esportazione di questa risorsa rende attualmente allo stato 500 milioni di dollari annui, cifra che potrebbe arrivare a triplicarsi con lo sfruttamento dei nuovi giacimenti scoperti. Al fine di sfruttare tale risorsa è stata progettata, e successivamente aggiudicata al gruppo REPSOL-YPF, la costruzione di un gasdotto per l’esportazione di gas in Messico. Per la realizzazione di questo progetto sarebbe necessario costruire un gasdotto con una estensione di 800 Km da Tarija fino al porto di Patillo (situato nella II Regione a Nord del Cile) o il porto di ILO (peruviano), è prevista inoltre la costruzione di un impianto criogenico di liquefazione in prossimità del porto prescelto. In considerazione del forte spirito anti cileno della popolazione, il Presidente ha optato per il porto peruviano. "
La presenza dei numerosi giacimenti in Bolivia e di gas naturali e petroliferi non convalida l’ipotesi di un rincaro dei prezzi degli idrocarburi dovuto all’aumento del consumo del gas. Per le leggi del mercato l’offerta supera la domanda (come si nota nella tabella sottostante).
Il dubbio e l’incertezza del quadro sociale-politico presente oggi in Bolivia ci può esporre a giudizi affrettati e poco coerenti con la situazione per questo desisto nello sbilanciarmi, ma un dubbio resta: " Considerando le dinamiche di un anno fa e i motivi per cui si arrivò al Referendum per la nazionalizzazione del gas, la popolazione boliviana ha ragione nel sentirsi frustata e ingannata? "
Di certo i giacimenti erano fonti appetibili per le multinazionali e lo restano ancora per il Presidente.
L’aggravarsi della situazione economica, che si presenta in situazioni di difficoltà politiche nella maggioranza, pone il governo davanti a un dilemma. In sostanza deve scegliere tra una linea di ricerca del consenso attraverso la distribuzione di “saldi di fine legislatura”– come fece l’ultimo esecutivo di centrosinistra, quello presieduto da Giuliano Amato, ulteriormente senza successo, – e una linea di rigore e di riforme, che può apparire meno popolare, ma che corrisponde meglio alla realtà del Paese. Silvio Berlusconi e Domenico Siniscalco, gli uomini sui quali pesa la principale responsabilità di questa scelta, sembrano aver optato per il rigore e le riforme. Quando il presidente del Consiglio afferma che chiudere il contratto degli statali a 111 euro di aumento medio sarebbe «ingiusto», sa di offrire in questo modo ai sindacati il pretesto per insistere agitazione nel quadro sociale che può far presa su milioni di lavoratori (potenziali elettori). Presentare al più presto una Finanziaria che non strizzi l’occhio a nessuno, ma si impegni nel sostegno dei settori produttivi nei limiti consentiti dalle reali disponibilità, è una proposta destinata a mettere sotto sforzo una maggioranza parlamentare e un’alleanza politica già attraversata da visibili incrinature, conseguenza inevitabile di una serie di rovesci elettorali.Non è detto che la maggioranza e l’alleanza reggeranno a questa sfida. Ma è giusto provarci, perché solo dimostrando coesione in un momento di difficoltà, fino al punto da sostenere scelte serie anche se non finalizzate ad una facile ricerca della popolarità, la maggioranza può servire il Paese e onorare il mandato elettorale che ha ricevuto quattro anni fa.
Il commissario europeo Peter Mandelson ha ceduto alla linea dei paesi mediterranei. La Commissione europea ha infatti reso noto l’avvio della procedura d’urgenza su due prodotti del tessile cinese, t-shirt e il filo di lino, su cui verranno avviate consultazioni formali con il Governo di Pechino. Tali consultazioni, ha spiegato lo stesso Mandelson, comporteranno “urgenti discussioni tra la Cina e l’Unione europea, sulle modalità migliori per limitare la crescita dell’esportazioni cinesi in queste categorie”.
La decisione del commissario europeo al commercio arriva dopo diverse fasi di trattative all’interno della stessa unione e a seguito dell'intervento Usa sulla questione. Sulla delicata questione del tessile infatti si sono formate due linee di azione: da una parte i grandi paesi produttori (Italia, Spagna, Francia e Grecia) che chiedono una azione rapida di salvaguarda, dall’altra invece i paesi nordici (Gran Bretagna, Danimarca e le repubbliche scandinave) che propongono al contrario una via più morbida e di monitoraggio.
La consultazione formale chiede in sostanza alle autorità cinesi di agire immediatamente per ridurre la crescita delle proprie esportazioni in queste due categorie e di portarla a livello dei primi 12 mesi dei precedenti 14 più il 7,5%. Questo limite, previsto dall’ accordo per l’ ingresso della Cina nella Wto, dovrebbe diventare operativo entro la fine del 2005.
Secondo i dati raccolti dal Servizio commercio estero della Commissione, la produzione di t-shirt è crollata del 12% in Grecia, del 30%-50% in Portogallo e dell’8% in Slovenia. Per i filati di lino, la produzione europea è crollata del 25%, il giro d’affari del 25% e l’occupazione del 13% nei primi mesi del 2005 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
I dati Istat sul Pil del primo trimestre 2005 inducono il Governo a un cambio di strategia. Si volta pagina nei contenuti, nel metodo e nei tempi. Entro due settimane verrà presentato il documento di programmazione economica e finanziaria, dove la priorità dell’agenda politica diventa la competitività – con l’annuncio del premier di un taglio dell’Irap di 12 miliardi di euro in un anno – mentre viene abbandonata la riforma dell’Irpef. L’abbattimento del peso fiscale è la conferma dalla politica di Berlusconi che è fiducioso di aprire una trattativa con l’Europa per integrare la riduzione dell’Irap sul costo del lavoro per un punto di Pil (ciò significa l’abbattimento del limite del 3% del rapporto deficit/Pil). Di parere contrastante è il ministo dell’economia Siniscalco, che finanzierebbe l’eliminazione dell’Irap attraverso l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. A sostegno dei possibili interventi entra oggi in vigore il decreto legge 35 sullo sviluppo varato nel marzo scorso dal Governo.
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Tanto lusso poca creatività. Un bollettino di guerra gli ultimi dati sul manifatturiero in Italia. È bene rileggerli per inquadrare l’ambito nel quale si fanno le tante chiacchiere sulla competitività del made in Italy: la produzione dell’abbigliamento è scesa dell’11 per cento su base annua, quella calzaturiera del 16,6, quella dei mobili dell’8,1 per cento e quella dei mezzi di trasporto del 4,2 per cento. Al riguardo solo le auto calano del 9,8 per cento. Queste categorie sono molto diverse tra loro, ma hanno (e soffrono) di un comune denominatore: la difficoltà di competere con i prodotti stranieri che stanno inondando il mercato interno: costano meno e forse non sono di qualità inferiore ai nostri. Forse, prima di pretendere dazi contro la Cina sul tessile dal commissario europeo Peter Mandelsson sarebbe il caso che l’industria la smettesse di nascondersi dietro il famoso mito della creatività italiana.
A Lussemburgo torna a scoppiare il caso Italia. La notizia del secondo dato negativo consecutivo è calata come una doccia fredda sui ministri finanziari dell’Eurogruppo riuniti venerdì scorso. «Siamo seriamente preoccupati dall’evoluzione dell’economia europea non meno che dalle divergenze di crescita tra i paesi dell’area» ha dichiarato il premier lussemburghese e ministro delle finanze Jean-Claude Juncker, attuale presidente di turno dell’Unione. Molto più esplicito Joachin Almunia, il commissario Ue competente: «Non attendevamo un rapido recupero dell’Italia ma certo non ci aspettavamo cifre così negative» e aggiunge «nel caso dell’Italia la recessione deriva da problemi strutturali che si combattono con interventi come il pacchetto competitività varato dal Governo».
Problemi di Etica La situazione italiana non correlata con quella europea è un evidente segno, anzi una conferma, che i problemi sono profondi e che per tentare di risolverli, bisogna rivangare il passato affrontando questioni antiche. La malattia è diversa da quella dell'economia europea che cresce poco: sta nell'industria che non regge la competizione internazionale e non trova la fiducia per rinnovarsi. D'altra parte le statistiche riflettono quanto si percepisce quotidianamente. Non si è visto lo "scatto d'orgoglio" del Paese sottoforma di sistema ma neppure si assiste ad una "scossa" che viene dal mercato. A quanto si respira, della riorganizzazione di un'industria che continua a perdere quote di mercato si preoccupano più le associazioni industriali e le maggiori banche che non i responsabili delle singole imprese. Proprio dalle radici della vecchia società che ha fatto grande "il made in Italy" è nata la nuova classe dirigenziale che ne ha sotterrato i valori di quella precedente e fiorito lati negativi a contrasto con l'etica economica. Il fatto è che l'Italia sembra essere più attenta solo a se stessa. Lo è la politica a favore del federalismo, lo è l'informazione che offre al provincialismo uno spazio sproporzionato. E la forza di attrazione di questo provincialismo finisce per indebolire la reazione delle imprese alla perdita di competitività. Al provincialismo si associa la faziosità, altra costante della nostra storia che non si accorda con il mercato. E dalla faziosità ne deriva la diffidenza verso gli altri che giustifica l'esaltazione dei legami familiari che poi si manifestano, purtroppo, nelle sorti dell'azienda.
Problemi di (in) numeri Prospettiva attinta da un rapporto della Banca d'Italia, condivisa, elaborata e divisa in punti. 1)L’arretratezza delle infrastrutture si è fatta più pesante e più avvertita. Particolarmente carenti al Sud, le infrastrutture materiali – che è molto costoso manutenere e ammodernare, in primo luogo per le pubbliche finanze – non sono state, nell’intera Penisola, potenziate. E’ probabile che si siano deteriorate. Non hanno corrisposto alle accresciute esigenze. Sono state, sono, si teme che restino inferiori per quantità e qualità a quelle di altri paesi europei. Ma ciò è vero anche per importanti infrastrutture immateriali. L’ordinamento giuridico dell’economia, cruciale per la crescita, si è dimostrato sempre meno acconcio, nelle norme e nella loro applicazione.
2)Per vie diverse è derivato e deriva dal debito pubblico un impedimento alla più intensa accumulazione di capitale, e quindi alla crescita. In passato l’ostacolo all’accumulazione del capitale si esprimeva anche attraverso i premi al rischio insiti nell’alto prezzo del danaro, che penalizzava gli investimenti. Negli anni più recenti il freno ha continuato a esprimersi attraverso aspettative che deprimono la stessa propensione a investire. Agli occhi degli imprenditori una riduzione della pressione tributaria – in rapido aumento fino al 1997 – è apparsa, anche nel medio termine, via via più improbabile. Scarseggiano le risorse di bilancio per manutenere e rafforzare infrastrutture sempre meno adeguate e per ridurre il costo del lavoro per le imprese.
3)La frammentazione del sistema delle imprese e l’incapacità della piccola impresa di accrescere la propria dimensione – tratti storici del capitalismo italiano – si sono, l’una e l’altra, accentuate. Le ragioni sono anche giuridiche, burocratiche, fiscali: all’impresa italiana appare “conveniente” restar piccola, per contenere costi e rischi. Sfortunatamente ciò ha coinciso con l’era della tecnologia digitale, della cosiddetta ICT, dell’elettronica: un progresso tecnico capace di dare soprattutto alla grande impresa fordista margini di flessibilità più ampi. La condizione di “piccole donne che non crescono” delle aziende italiane, lungi dall’essere imposta dal modello di specializzazione, congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni. Vi è ampia evidenza degli impedimenti che ne risultano alla formazione dei lavoratori, alla spesa per ricerca, al progresso tecnico (in specie nell’ICT), alla produttività.
4)Nonostante l’apertura verso l’estero, all’interno dell’economia italiana la concorrenza – nella sua più vasta accezione – è complessivamente diminuita. E’ diminuita a livello tanto di macrodeterminanti (cambio, salario reale, spesa pubblica), quanto di microdeterminanti (nei mercati dei prodotti e nei mercati della proprietà e del controllo delle imprese). Il sostegno della spesa pubblica, la cedevolezza del cambio, la dinamica salariale accomodante hanno indebolito le sollecitazioni all’efficienza e alla innovazione, capaci di vincere lassismo e moral hazard presso i produttori.
Sulla base delle informazioni finora disponibili, nel primo trimestre del 2005 il PIL, valutato ai prezzi del 1995 destagionalizzato e corretto per il diverso numero di giorni lavorativi, è diminuito dello 0,5 per cento rispetto al trimestre precedente e dello 0,2 per cento rispetto al primo trimestre del 2004. Il risultato congiunturale del PIL è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto dell’agricoltura e dell’industria e di una sostanziale stazionarietà dei servizi. Il primo trimestre del 2005 ha avuto una giornata lavorativa in meno rispetto al trimestre precedente e lo stesso numero di giornate lavorative del primo trimestre del 2004. Nel primo trimestre il PIL è cresciuto in termini congiunturali dell’1,0 per cento in Germania, dello 0,8 per cento negli Stati Uniti e dello 0,6 per cento nel Regno Unito. In termini tendenziali, il PIL è cresciuto del 3,6 per cento negli Stati Uniti, del 2,8 per cento nel Regno Unito e dell’1,1 per cento in Germania. Nell’intera Area Euro il PIL è cresciuto dello 0,5 per cento rispetto al trimestre precedente e dell’1,4 per cento rispetto al primo trimestre del 2004. Secondo la prassi corrente, sono comunicati i dati trimestrali revisionati a partire dal primo trimestre 2003. La metodologia utilizzata per la stima preliminare del PIL è analoga a quella seguita per la stima completa dei conti trimestrali. La mancanza totale o parziale di alcuni indicatori alla data della stima preliminare comporta un maggiore ricorso a tecniche statistiche di integrazione. Di conseguenza, le stime preliminari trimestrali possono essere soggette a revisioni di entità superiore rispetto alle stime correnti, diffuse a 70 giorni dalla fine del trimestre. Fonte: Istat
Tutto ciò significa recessione in senso tecnico-statistico. Le esportazioni perdono colpi e la domanda interna ristagna, mentre c'è un riaccumulo di scorte da parte delle imprese. E' sempre un dato trimestrale, ma risulta significativo se confrontato agli altri partner europei e considerando l'assenza di divario del numero dei giorni lavorativi rispetto la valutazione negli anni precedenti.
L’annuncio del Dipartimento del Commercio a spiazzato tutti. Il deficit commerciale Usa si è ridotto a 55 miliardi di dollari, contro i 60,6 di febbraio. Il dato diminuito esattamente del 9,2% costituiva, insieme alla spesa pubblica, il principale male economico Americano, invece ora rappresenta il livello più basso del deficit dal settembre 2004. Gli analisti che avevano pronosticato che il rosso commerciale salisse ancora sopra i 61 miliardi, oggi giustificano l’accaduto attraverso l’aumento della bolletta petrolifera che è una delle voci del export Usa, ma di certo 0,3 milioni di dollari, che costituiscono il guadagno netto dovuto dall’aumento del prezzo del greggio, non possono essere l’unica causa di tale crollo. Credo che il popolo americano abbia ascoltato la campana suonata dalla propria amministrazione, arretrando la propria frenesia dei consumi per i prodotti esteri, diminuendo così le importazioni del 2,5%. Al tempo stesso anche le esportazioni sono salite dell’1,5%.
Valutazione del protezionismo: riforma su merci agricole
E' molto difficile misurare l’entità dei protezionismi attorno al mondo e conseguentemente fornire una stima accurata dell’impatto economico di qualunque liberalizzazione dei commerci. Proprio per questo l’Unione Europea, Stati Uniti e Giappone hanno deciso di esprimere le tariffe applicate sui prodotti agricoli in termini percentuali rispetto al valore delle materie prime che importano dal terzo mondo, eliminando così il sistema di tariffe fisse al gallone o alla tonnellata fin qui utilizzato. Potrebbe sembrare un’innovazione marginale e dai risvolti innocui: ma rappresenta uno di quei provvedimenti che invece non sono piccoli, ne estetici. Si tratta soprattutto di una vittoria per i paesi in via di sviluppo, che da tempo criticavano il vecchio sistema tariffario capace di dissimulare il reale livello di protezionismo.
Da un indagine pubblicata da Andy Mukherjee, editorialista di Bloomberg News, si osserva che gli Usa sono i meno protezionisti seguiti da l’Europa e Giappone, occupano gli ultimi posti i paesi in via di sviluppo. Quest’ultimi, giustamente, si rifugiano nel protezionismo per preservare la propria produzione che altrimenti sarebbe minacciata dai prodotti realizzati dell’economie di scala dei paesi sviluppati (in altre parole la domanda di beni sarebbe soddisfatta dagli economici prodotti esteri).
Adottando un sistema percentuale dei dazi rispetto al valore delle importazioni riguardo il settore agricolo a sorpresa si dimostra anche che la Svizzera è più protezionista di quanto lo siano Tailandia e Cina. Calcolando il livello di protezione con il nuovo metodo si attesta cha la Svizzera impone dazi al 43% del valore delle merci importate, più del doppio rispetto a un paese sotto sviluppato. Eppure la Svizzera, d’accordo con l’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) nel luglio 2004, si era già impegnata a migliorare in maniera sostanziale l’accesso ai mercati.
Che confusione questo mercato. Il nervosismo cresce, le incertezze su petrolio e dollaro pesano e i dati macro contrastanti invocano la prudenza. Per non parlare poi della mazzata presa dal settore dell’auto dopo la riduzione dei rating obbligazionari di Ford e General Motors a livello di titoli spazzatura. In difficoltà quindi non c’è solo Fiat che con l’arrivo di John Jakob Elkann a smesso di pensare alle automobili. Sicuramente l’apertura di locali mondani affiancato da una politica di merchandising di felpe, borsette e accessori griffate Fiat, rappresenteranno una strategia vincente del festaiolo Lapo-Lapo Elkann per mettere l’azienda al palo.
Molti hedge sono confusi e c’è chi vede nella situazione l’apocalisse. Proprio quando gli indici di mercato si spostano lateralmente è difficile stabilire se avverrà una pronta ripresa del rialzo o il proseguimento della correzione, ma di certo non c’è bisogno di scaldarsi, la razionalità in questo momento è il miglior amico dell’operatore. Se l’andamento del mercato dimostra incostanza i vari settori che lo compongono sembrano reagire in perfetta correlazione con le aspettative. Le s.p.a. legate al prezzo del petrolio ne costituiscono un esempio, anche se qui è presente il rischio di sopravalutazione dei titoli (creatosi dopo mesi di continui rialzi dei prezzi) ci sono alcune società su cui merita puntare l’occhio. L’azienda Tenaris che produce tubi d’acciaio per l’industria petrolifera è una delle mie preferite. Il rialzo del prezzo del barile ha spinto la compagnia ad aumentare la ricerca e la produzione di nuovi giacimenti, con un impatto positivo sui conti aziendali. Evidenziate come pecore bianche dall’analisi tecnica sono anche da monitorare Unicredito, Monte dei Paschi di Siena, Mondatori ed Eni, quest’ultima avvantaggiata dall’instabilità del prezzo del petrolio (come già detto).
I laburisti ottengono uno storico terzo mandato consecutivo vincendo le elezioni britanniche di giovedì. Tony Blair festeggia così il suo compleanno, 52 anni compiuti il 6 maggio di cui 8 al potere, a questi si aggiungeranno quasi sicuramente altri 4 della prossima legislatura. “E’ fantastico” esclama non appena gli comunicano i risultati che lo vedono trionfare nelle città e nei grandi agglomerati urbani.
Molti quotidiani hanno messo in evidenzia la bastonata che ha colpito il laburismo per la perdita di numerosi voti che però non sembrano mutare, rispetto al passato, il numero dei seggi posseduti. La vittoria personale di Blair è invece indiscussa, dimostrando di essere più che un leader; proprio perché invece di seguire i suoi compagni di partito e più in generale l’opinione pubblica, ha proseguito per il suo sentiero tracciato dalla propria razionalità. Non ha avuto timore di contrapporsi all’ala sinistra del suo partito non soltanto sull’Iraq, ma anche di fronte a temi come l’economia e il suo cosiddetto “thatcherismo”. Essere democratici non esclude di non saper vedere più lontano di quel che vedono e desiderano i cittadini.
L’economia britannica a registrato, e continua a farlo, tassi di crescita sostenuti, superiori a quelli dell’eurozona. Nel 2004 il prodotto interno lordo e' aumentato del 3%, nonostante l'incerto quadro internazionale ed il conflitto iracheno. Le grandi riforme strutturali e la cauta politica macroeconomica dei due esecutivi laburisti hanno creato le condizioni per una crescita che dura da oltre un decennio. Il Regno Unito ha attraversato in questi anni un periodo d'espansione economica non inflazionistica. La crescita dei prezzi al consumo è sotto controllo con il tasso annuo ai livelli minimi dell'ultimo trentennio che ha favorito un boom dei consumi e del mercato immobiliare. Difatti si può definire un’economia trainata dalla domanda interna, dalla vivacità dei consumi privati e dall’andamento dei flussi di spesa pubblica.
Nel passato biennio il bilancio dello stato ha registrato deficit crescenti. Nel 2003 il disavanzo delle pubbliche amministrazioni britanniche ha raggiunto la cifra record di 35 miliardi di sterline (pari al 3,2% del Pil) ed i dati del 2004 confermano un deficit in crescita. L'impegno bellico in Iraq ed il finanziamento della "guerra al terrorismo" hanno influito sul deterioramento della finanza pubblica. Il Tesoro ha reso noto di aver speso 2,3 miliardi di sterline nello scorso biennio e di avere ancora disponibile una riserva di £ 1,2 miliardi. Per l'anno fiscale 2004-2005 è prevista un'ulteriore riserva di £ 0,3 miliardi.
Le rigorose politiche fiscali e di controllo della spesa pubblica del primo Governo di Tony Blair sono ormai un ricordo del passato. Il ministro dell'economia Gordon Brown aveva adottato nel '97 la programmazione triennale e aveva introdotto la cosiddetta "regola d'oro", per mantenere invariato il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno. A partire dal 2002 il Cancelliere dello Scacchiere ha avviato una politica di forte incremento della spesa pubblica in funzione anticongiunturale. Le dichiarazioni di Gordon Brown, uomo forte del governo laburista e possibile futuro primo ministro, concludono un ciclo ventennale, avviato dai governi conservatori di Margareth Thatcher, di programmato calo della pressione fiscale.
Gli ultimi rapporti semestrali dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (OCSE) hanno invitato il Governo britannico alla prudenza, sottolineando la opportunità di procedere, in una fase di ripresa, ad un "aggiustamento morbido" tramite un aumento delle tasse oppure una riduzione della spesa corrente. Sia per l'OCSE che per il Fondo Monetario Internazionale (FMI) la velocità con cui la spesa pubblica sta crescendo potrebbe portare ad un "surriscaldamento" da eccesso di finanziamenti per i servizi pubblici. L'Esecutivo, con la legge finanziaria 2004/2005, ha confermato l'intenzione di aumentare la spesa pubblica nei settori sanità, trasporti, istruzione. Per finanziare tali spese aumenteranno i contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro e si farà ricorso all'indebitamento pubblico.
Nel mercato del lavoro la disoccupazione, dopo 13 anni di crescita economica ininterrotta, è ai minimi storici. L’unica macchia nera è la mancanza di manodopera qualificata nella Capitale ed in tutto il Sud Est dell'Inghilterra, che crea problemi di competitività nei settori della scuola, dei trasporti pubblici, delle costruzioni e della sanità.
I recenti dati dell'area euro dimostrano che il recupero della produzione e della domanda all'inizio dell'anno ha avuto poca vita e l'economia probabilmente è tornata in una fase di stagnazione che già aveva conosciuto nella seconda metà dell'anno precedente. Non a caso la revisione al ribasso del tasso di crescita da parte di diverse istituzioni, come FMI, commissione Europea, Banca Mondiale e persino la stessa Bce è stata unanimemente dell'1.6% per il 2005, e ancora si potrebbe dire essere ottimistica. Tuttavia, le delusioni sulla crescita sono divenute la normalità in Europa e per questo decisamente allarmante. La Germania, l'economia più grande tra i Paesi europei, ha subito un dimezzamento nelle previsioni di crescita, da 1.5% a 0.7%, da parte di sei istituti (tra cui Zew e Ifo). Nel rapporto semestrale gli istituti hanno citato l'aumento del prezzo del petrolio e l'elevata disoccupazione, ai massimi del dopoguerra, come le cause principali del rallentamento. Secondo la commissione Europea la Germania registrerà la performance economica più modesta tra tutti i 25 Paesi della Ue mentre lo stesso Fmi prevede una crescita che non supererà lo 0.8%. Con riserva, la crescita dovrebbe ripresentarsi nella seconda metà dell'anno. Inoltre, l'Unione Europea rischia una seria crisi politica, la quale potrebbe mettere in seria discussione l'esistenza stessa della valuta unica. E il mercato valutario potrebbe avere già fiutato il fatto. Esistono attualmente due fattori che comprometterebbero l'integrazione europea: a) il sorgere del protezionismo, specialmente in Germania, contro il "wage dumping" dei paesi membri dell'Europa dell'est b) il probabile rifiuto della costituzione dell'Unione Europea da parte della Francia e dell'Olanda Proprio in settimana Schoreder e Chirac hanno tentato, nel summit del Consiglio dei ministri dei due Paesi, di insistere sul fatto che la costituzione permetterà di avere per la prima volta nella storia un'Europa allargata, fondata su dei valori sociali forti in grado di difenderci dall'assalto liberista dei Paesi anglosassoni, ma anche da quello delle nuove potenze mondiali come Cina e India. Sul tema politico vi segnalo “In sella con le mani legate” del quindicinale ondine Emporion, che individua il bilaterismo creatosi nell’unione come limite per la presentazione di un programma di governo europeo:
La Commissione, nel suo insieme, non ha presentato un programma di governo, divisa com’è tra il liberalismo ortodosso di marca britannica, che adora il dio mercato, e il liberalismo pragmatico di marca franco-tedesca, che realisticamente vorrebbe promuovere lo sviluppo. In mezzo a queste due tendenze la Commissione, come ha osservato recentemente il corrispondente di Le Monde da Bruxelles, “non sa a che Santo votarsi”.
La stessa credibilità della Bce è messa in discussione, considerata troppo rigida e concentrata sull'inflazione rispetto alla Fed che non ha badato agli effetti collaterali della propria politica monetaria espansiva in passato, pur di ottenere effetti durati sul ciclo economico. Se la Bce desse ascolto a queste pressioni verrebbe a crearsi maggiore inflazione che potrebbero ingenerare ondate di proteste nei Paesi che storicamente hanno cercato la stabilità dei prezzi come la Germania. In questo difficile momento per l'Europa, il Vice della Federal Reserve, Roger Ferguson ha ridato lustro alla Bce affermando che la politica monetaria svolta in questo frangente è "fonte di credibilità" per la zona euro, aggiungendo che l'attenzione sulla stabilità dei prezzi ha consentito alla nuova banca centrale di sancire la propria credibilità e ancorare le aspettative di inflazione. Ciò non toglie che l'Euro zona non è più vista come un vantaggio economico e competitivo, ma come una somma di vincoli, costrizioni, rigidità che conseguentemente portano alle inefficienze ed inefficacie di cui siamo oggi testimoni..
La Turchia attuale è il prodotto di una serie di ribellioni, rivoluzioni e riforme tese a costruire un moderno Stato europeo sulle macerie di un impero che aveva avuto una fortissima espansione. La storia unisce la Turchia al nostro continente, ma questo non rende certo più facili i negoziati d’oggi. Gestirli sarà decisivo: i rischi di un fallimento sarebbero molto alti, non solo per i rapporti fra Europa e Islam ma anche per l’economia della stessa unione.
L'art. 1 del trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa parla chiaro: “L'Unione è aperta a tutti gli Stati europei che rispettino i suoi valori e s'impegnino a promuoverli congiuntamente”. Lo stato candidato deve aderire ai valori dell’Unione indicati all’articolo 2, precisamente al “rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello stato di diritto e rispetto dei diritti umani”. Inoltre, il Consiglio Europeo di Copenhagen del 1993 ha stabilito criteri concreti che coprono aspetti politici istituzionali, l’economia e gli obblighi specifici di membro, compresi gli obiettivi di un’unione politica, economica e monetaria. La serie di requisiti e criteri Stabiliti dalle fonti dell’Ue ci obbligano a porci delle domande che rispondano ad una serie di problematiche che fanno dell’adesione turca il percorso d’avvicinamento e d’insediamento più complesso e duraturo della storia Europea: La Turchia può essere inserita in un progetto europeo? Gli eredi dell’Impero Ottomano fanno parte dell’Europa? Il quesito posto in questo termine ha già una risposta individuata nelle proprie radici che inquadrano la Turchia non solo dal punto di vista storico ma anche culturale. Una testimonianza è il processo d’occidentalizzazione seguito dopo la caduta dell’impero, accolto dalla popolazione con l’attuazione delle riforme di Ataturk che svilupparono la Turchia come Stato secolare moderno. Non sorprende dunque che alla Turchia sia stato applicato lo stesso metodo di valutazione usato nelle relazioni del Consiglio europeo di Helsinki del 13 dicembre del 1999 dove si indicava omogeneità dei processi di adesione dei 13 candidati, anche se la situazione e i progressi dei singoli paesi non erano certo equivalenti. Quindi, la strada per l’ingresso pare tracciata ma data finale e percorso intermedio appaiono, tuttavia, ancora incerti. Proprio nel confronto con gli altri candidati, emergono differenze sostanziali, soprattutto di natura politica, con particolare riferimento al rispetto dei diritti umani, all’amministrazione giudiziaria e carceraria, alla tutela delle minoranze, alla questione curda, all’occupazione di Cipro e ai rapporti con l’Armenia. Ma non possono esserci dubbi sul fatto che l’adesione della Turchia all’Ue porrebbe entrambi di fronte ad opportunità e benefici di notevole entità. Inoltre, devono essere presi in considerazione anche i costi dell’eventuale rifiuto, insieme ad ulteriori conseguenze negative. Cosa ne guadagnerebbe l’Unione Europea?
IMMAGINE. L’adesione della Turchia fornirebbe una prova innegabile del fatto che L’Europa non è un “Gruppo Cristiano” chiuso. Essa confermerebbe la natura dell’Unione come società aperta e tollerante, che trae forza dalla sua diversità ed è mantenuta insieme dai valori comuni di libertà, democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani.
RAFFORZARE LA POLITICA ESTERA. Grazie alla sua posizione geo-strategica, la Turchia aggiungerebbe nuove dimensioni agli sforzi di politica estera compiuti dall’Unione in regioni di vitale importanza. Le opportunità si presentano nel bacino del Mar Rosso, nel Caucaso Meridionale e nell’Asia Centrale, dove l’Ue ha mantenuto un profilo basso in passato ma dove la Turchia, per motivi di natura geografica, culturale, religiosa e linguistica, ha invece svolto un ruolo attivo.
ECONOMIA Oltre a rafforzare il ruolo dell’Unione nel campo politico e della sicurezza, la Turchia potrebbe fornire un valore aggiunto al peso economico dell’Europa nel mondo. Anche se continuerà a soffrire di deficit e squilibri per alcuni periodi a venire, la sua economia gode di un grande potenziale. Il paese ha vaste dimensioni, possiede risorse notevoli ed una forza lavoro giovane. Con una popolazione di settanta milioni di persone e un potere d’acquisto che si prevede aumenterà costantemente, il potenziale turco, potrebbe fungere da leva e trainare, insieme ai neo-paesi dell’Europa dell’Est, l’economia europea fuori dalla stagnazione.
Dinamiche demografiche. Uno degli elementi di cui si basa Il successo economico di un qualsiasi paese è la capacità della propria popolazione. Da questo punto di vista, la Turchia presenta caratteristiche che la distinguono da quasi tutti i vecchi e i nuovi membri dell’Ue. La prima e più nota differenza sta nel fatto che la popolazione turca è ancora in fase di crescita, mentre quella della maggior parte dei paesi membri sta già declinando, o sta per cominciare a farlo (anche nei paesi appena entrati). Ma una popolazione in crescita costituisce un’opportunità economica soltanto se è in ascesa il tasso d’occupazione. Questo non sembra essere ancora accaduto in Turchia. Il dato occupazionale messo a confronto con quello degli Stati dell’Est Europa è nettamente al di sotto a causa di una percentuale inferiore di persone fra i 15 e i 64 anni d’età presenti nel paese, che costituiscono l’elemento per il calcolo dello stesso tasso d’occupazione; Quindi a pesare sulle stime è l’elevata percentuale di giovani turchi con età inferiore ai 15 anni. Un’altra spiegazione del minore tasso d’occupazione della popolazione in età lavorativa è inoltre rappresentato dal bassissimo tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Se la Turchia vuole sfruttare il proprio vantaggio demografico, dovrà riuscire a spezzare questo circolo vizioso, agendo sull’attuale correlazione tra il tasso demografico con quello occupazionale.
Il capitale umano. Ai fini della crescita economica, non è solo la quantità ma anche la qualità che conta. In altre parole, il potenziale economico di un paese dipende strettamente dalla qualità della forza lavoro attuale e potenziale, ossia dal suo “capitale umano”. Da questo punto di vista la Turchia parte da una posizione molto debole. Considerando gli investimenti nell’istruzione il processo d’alfabetizzazione, in un quadro europeo, la Turchia si classifica alle ultime posizioni. Il divario si presenterebbe ampliato se si tenesse conto del fatto che in Turchia la percentuale di popolazione in età scolastica è molto elevata. Ma questo limite rappresenta anche la dimostrazione delle possibili potenzialità economiche della Turchia una volta attuato un piano decennale rivolto a investire nei giovani turchi.
Dualismo economico. Se esaminiamo i dati regionali e di settore possiamo verificare l’esistenza di due economie: un vasto e povero settore agricolo (o piuttosto rurale), e un settore moderno allo stesso livello di quello dei paesi più sviluppati dell’Unione. Infatti attraverso l’analisi del valore aggiunto per persona impiegati nei diversi settori si può affermare che il settore primario (cioè agricolo) rispecchia la situazione presente nei paesi più poveri dell’Europa Orientale come Bulgaria e Romania, in contrapposizione a quello terziario che impallidisce i dati della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Polonia, i tre paesi più grandi fra i nuovi membri dell’Ue. Queste grandi differenze nei livelli di produttività si riflettono anche in notevoli disparità regionali, in quanto il settore moderno e più produttivo (soprattutto l’industria più alcuni servizi) è concentrato in un numero ridotto di regioni nella parte occidentale del paese. Il risultato ne conferma che le regioni più povere producono meno di un quarto del Pil pro capite rispetto a quelle ricche.
Nel corso degli ultimi tre anni la Turchia ha avuto una forte crescita, con tassi di crescita attorno al 5-7%. Fino a quanto potrà durare questo boom? Le previsioni sono difficili, visto che il passato mostra andamenti economici molto variabili, con fasi di straordinario dinamismo seguite da fasi di profonda recessione (e viceversa). La prima conclusione possibile tende ad attribuire alla Turchia un forte potenziale di crescita, ma che la volatilità macroeconomica ha finora reso impossibile realizzarla. In prospettiva tutti i fattori che hanno ostacolato lo sviluppo nel corso degli ultimi due decenni dovrebbero ridursi di importanza, soprattutto in vista della procedura d’adesione che inviterà il governo di Ankara a concludere il processo di riformazione del proprio paese. Un alto tasso di investimenti, quello che ci vuole per l’economia, permetterebbe alla Turchia di sprigionare le sue enormi qualità, portando la metà arretrata della popolazione all’interno del settore moderno. Col tempo, la qualità della forza lavoro potrebbe anche migliorare sostanzialmente, se l’Ue fornirà aiuti finanziari, che sarebbero ulteriormente utili per trasferire tecnologia in modo da massimizzare la produttività.
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