LaTurchia attuale e' il prodotto di una serie di ribellioni, rivoluzioni e
riforme tese a costruire un moderno Stato europeo. La storia la unisce al nostro
continente, ma questo non rende certo pi facili i negoziati di oggi.
In seguito all'apertura commerciale e al
processo di modernizzazione il Governo di Pechino ora si vede lottare contro
ideali democratici provenienti dall'interno e dall'esterno del paese.
Energia
Stiamo entrando nella seconda metà
dell'era del petrolio, che sarà caratterizzata dal declino degli
approvvigionamenti. Potrebbe essere la fine dell'economia come la conosciamo
oggi ma fare previsioni è impossibile, perchè sarà la prima volta che
una risorsa cruciale esaurirà .
I dati Istat sul Pil del primo trimestre 2005 inducono il Governo a un cambio di strategia. Si volta pagina nei contenuti, nel metodo e nei tempi. Entro due settimane verrà presentato il documento di programmazione economica e finanziaria, dove la priorità dell’agenda politica diventa la competitività – con l’annuncio del premier di un taglio dell’Irap di 12 miliardi di euro in un anno – mentre viene abbandonata la riforma dell’Irpef. L’abbattimento del peso fiscale è la conferma dalla politica di Berlusconi che è fiducioso di aprire una trattativa con l’Europa per integrare la riduzione dell’Irap sul costo del lavoro per un punto di Pil (ciò significa l’abbattimento del limite del 3% del rapporto deficit/Pil). Di parere contrastante è il ministo dell’economia Siniscalco, che finanzierebbe l’eliminazione dell’Irap attraverso l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie. A sostegno dei possibili interventi entra oggi in vigore il decreto legge 35 sullo sviluppo varato nel marzo scorso dal Governo.
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Tanto lusso poca creatività. Un bollettino di guerra gli ultimi dati sul manifatturiero in Italia. È bene rileggerli per inquadrare l’ambito nel quale si fanno le tante chiacchiere sulla competitività del made in Italy: la produzione dell’abbigliamento è scesa dell’11 per cento su base annua, quella calzaturiera del 16,6, quella dei mobili dell’8,1 per cento e quella dei mezzi di trasporto del 4,2 per cento. Al riguardo solo le auto calano del 9,8 per cento. Queste categorie sono molto diverse tra loro, ma hanno (e soffrono) di un comune denominatore: la difficoltà di competere con i prodotti stranieri che stanno inondando il mercato interno: costano meno e forse non sono di qualità inferiore ai nostri. Forse, prima di pretendere dazi contro la Cina sul tessile dal commissario europeo Peter Mandelsson sarebbe il caso che l’industria la smettesse di nascondersi dietro il famoso mito della creatività italiana.
A Lussemburgo torna a scoppiare il caso Italia. La notizia del secondo dato negativo consecutivo è calata come una doccia fredda sui ministri finanziari dell’Eurogruppo riuniti venerdì scorso. «Siamo seriamente preoccupati dall’evoluzione dell’economia europea non meno che dalle divergenze di crescita tra i paesi dell’area» ha dichiarato il premier lussemburghese e ministro delle finanze Jean-Claude Juncker, attuale presidente di turno dell’Unione. Molto più esplicito Joachin Almunia, il commissario Ue competente: «Non attendevamo un rapido recupero dell’Italia ma certo non ci aspettavamo cifre così negative» e aggiunge «nel caso dell’Italia la recessione deriva da problemi strutturali che si combattono con interventi come il pacchetto competitività varato dal Governo».
Problemi di Etica La situazione italiana non correlata con quella europea è un evidente segno, anzi una conferma, che i problemi sono profondi e che per tentare di risolverli, bisogna rivangare il passato affrontando questioni antiche. La malattia è diversa da quella dell'economia europea che cresce poco: sta nell'industria che non regge la competizione internazionale e non trova la fiducia per rinnovarsi. D'altra parte le statistiche riflettono quanto si percepisce quotidianamente. Non si è visto lo "scatto d'orgoglio" del Paese sottoforma di sistema ma neppure si assiste ad una "scossa" che viene dal mercato. A quanto si respira, della riorganizzazione di un'industria che continua a perdere quote di mercato si preoccupano più le associazioni industriali e le maggiori banche che non i responsabili delle singole imprese. Proprio dalle radici della vecchia società che ha fatto grande "il made in Italy" è nata la nuova classe dirigenziale che ne ha sotterrato i valori di quella precedente e fiorito lati negativi a contrasto con l'etica economica. Il fatto è che l'Italia sembra essere più attenta solo a se stessa. Lo è la politica a favore del federalismo, lo è l'informazione che offre al provincialismo uno spazio sproporzionato. E la forza di attrazione di questo provincialismo finisce per indebolire la reazione delle imprese alla perdita di competitività. Al provincialismo si associa la faziosità, altra costante della nostra storia che non si accorda con il mercato. E dalla faziosità ne deriva la diffidenza verso gli altri che giustifica l'esaltazione dei legami familiari che poi si manifestano, purtroppo, nelle sorti dell'azienda.
Problemi di (in) numeri Prospettiva attinta da un rapporto della Banca d'Italia, condivisa, elaborata e divisa in punti. 1)L’arretratezza delle infrastrutture si è fatta più pesante e più avvertita. Particolarmente carenti al Sud, le infrastrutture materiali – che è molto costoso manutenere e ammodernare, in primo luogo per le pubbliche finanze – non sono state, nell’intera Penisola, potenziate. E’ probabile che si siano deteriorate. Non hanno corrisposto alle accresciute esigenze. Sono state, sono, si teme che restino inferiori per quantità e qualità a quelle di altri paesi europei. Ma ciò è vero anche per importanti infrastrutture immateriali. L’ordinamento giuridico dell’economia, cruciale per la crescita, si è dimostrato sempre meno acconcio, nelle norme e nella loro applicazione.
2)Per vie diverse è derivato e deriva dal debito pubblico un impedimento alla più intensa accumulazione di capitale, e quindi alla crescita. In passato l’ostacolo all’accumulazione del capitale si esprimeva anche attraverso i premi al rischio insiti nell’alto prezzo del danaro, che penalizzava gli investimenti. Negli anni più recenti il freno ha continuato a esprimersi attraverso aspettative che deprimono la stessa propensione a investire. Agli occhi degli imprenditori una riduzione della pressione tributaria – in rapido aumento fino al 1997 – è apparsa, anche nel medio termine, via via più improbabile. Scarseggiano le risorse di bilancio per manutenere e rafforzare infrastrutture sempre meno adeguate e per ridurre il costo del lavoro per le imprese.
3)La frammentazione del sistema delle imprese e l’incapacità della piccola impresa di accrescere la propria dimensione – tratti storici del capitalismo italiano – si sono, l’una e l’altra, accentuate. Le ragioni sono anche giuridiche, burocratiche, fiscali: all’impresa italiana appare “conveniente” restar piccola, per contenere costi e rischi. Sfortunatamente ciò ha coinciso con l’era della tecnologia digitale, della cosiddetta ICT, dell’elettronica: un progresso tecnico capace di dare soprattutto alla grande impresa fordista margini di flessibilità più ampi. La condizione di “piccole donne che non crescono” delle aziende italiane, lungi dall’essere imposta dal modello di specializzazione, congela quel modello, restringe l’investimento all’estero, limita le esportazioni. Vi è ampia evidenza degli impedimenti che ne risultano alla formazione dei lavoratori, alla spesa per ricerca, al progresso tecnico (in specie nell’ICT), alla produttività.
4)Nonostante l’apertura verso l’estero, all’interno dell’economia italiana la concorrenza – nella sua più vasta accezione – è complessivamente diminuita. E’ diminuita a livello tanto di macrodeterminanti (cambio, salario reale, spesa pubblica), quanto di microdeterminanti (nei mercati dei prodotti e nei mercati della proprietà e del controllo delle imprese). Il sostegno della spesa pubblica, la cedevolezza del cambio, la dinamica salariale accomodante hanno indebolito le sollecitazioni all’efficienza e alla innovazione, capaci di vincere lassismo e moral hazard presso i produttori.
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